Il tabù religioso nelle analisi sul jihadismo
Delle diverse analisi comparse in questi giorni sul jihadismo e sulla lotta all’ISIS in Iraq, due mi sono apparse debitamente documentate e intelligenti. La prima di Michele Di Salvo che – con competenza e profondità di analisi – descrive la lucidità politica del disegno di al-Baghdadi, una lucidità indirizzata al potere personale e non a generiche rivendicazioni sunnite, niente a che vedere con liberazioni anticolonialiste (in polemica don Di Battista); la seconda di Iacopo Barison che ricorda come le atrocità dell’ISIS non abbiano nulla di “medioevale” se non nell’immaginario occidentale, essendo invece fraddamente pianificate come strategia comunicativa per suscitare il terrore nei nemici (Barison poi prosegue con le colpe storiche dell’Occidente in quanto avviene in M.O.: certamente qualcosa da ricordare ma che non può costituirsi come senso di colpa fondativo che orienti le risposte attuali all’emergenza in corso).
Anche se questi spunti sono interessanti io ritengo che manchino – come in quasi tutti gli articoli che ho letto – di un’indicazione importante: il ruolo del fanatismo religioso.
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Parliamo del fanatismo
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