March 2, 2012
L’accademia del vicolo


Uno strato di polvere. Come una patina di fumo. Sulle mani, gli avambracci, la fronte, il collo. L’acqua fredda dal rubinetto del bagno. Sfilarsi la felpa, la t-shirt. Alzare la canottiera su, fino alla testa. Schiena allo specchio e sguardo all’indietro, oltre le spalle. Due ferite. Superficiali, dolorose, bellissime. A scrivermi sulla pelle che c’è una strada diversa dal piagnisteo.
No, non sono io il vigliacco. E lo sai. Anche se so che ti piace dirlo, camerata, perché la propaganda in guerra è un obice valido quanto qualsiasi altro. Se non di più. Non sono io l’infame. Anche se ti capisco, quando urli insulti a caso, mutuandoli pari pari dalla storia del gangster che non sei. Al quale proprio non assomigli. L’arditismo, l’onore, “Provate a prenderci”.
E di solito capita che se ti capita a tiro uno – uno di quei fricchettoni fuori dal tempo e dal mondo, uno di quei cenciosi barboni dalla canna d’ordinanza, un musicista sedicenne pieno di sogni e ideali – fai valere la legge della giungla. E te ne vanti con gli amici, spacciandola per legge della strada. Un codice univoco, di cui ti sei sentito depositario per troppi inspiegabili anni. Una cifra stilistica che non ammette repliche.
Arditismo, onore, “Provate a prenderci”.
E così siamo venuti a cercarti. A cercarvi. Perché non siamo gente da comunicati altisonanti, allarmati e allarmanti; perché dedicarvi una richiesta per occupazione di suolo pubblico, una fetta del centro pedonale da popolare di bandiere e cori altisonanti, allarmati e allarmanti – lo abbiamo capito col tempo – è tempo dedicato alla vostra causa. Alla causa della vostra visibilità. Perché fuori dai miti auto-rappresentativi c’è molto da imparare. E pure farvi un paio di scritte sul muro, nottetempo, avrebbe alimentato un sentimento sbagliato. D’invulnerabilità. D’intoccabilità. Un’invincibilità che non vi somiglia affatto. E siamo venuti a cercarvi. Con addosso tutto il peso dei simboli. Carichi di quella magia carica di richiami, quell’occulto più pesante del ferro, che pure dovrebbe, in qualche misura, affascinarvi. Vi abbiamo chiamato a gran voce. Con il fiato e con la miccia corta. Faccia a faccia.
Ingaggio da accademia dei vicoli. Brucia. È questo che brucia. Lo so bene.
Per questo ora ti lamenti, digrigni i denti, parli di inferiorità numerica, di armi improprie. Di vecchi, di bambini, di invalidi e donne incinta. I giornalisti prendono appunti: caschi, coltelli, passamontagna. Ma sai bene che non c’è nulla fuori posto in questa storia. Sei dei nostri sono finiti dentro, accollandosi nei referti tutto il materiale ritrovato sul posto. Gli astemi persino le bottiglie di birra. Ma non è questo il punto.
Osare, questo serve. Dieci, cinquanta o cento, per noi sarebbe stato lo stesso. Una volta partiti, non c’è ritorno. C’era poca polizia, denunci. Come se toccasse ai blu la difesa dei vostri covi. Noi l’antifascismo non lo deleghiamo. È un luogo comune, certo, una frase pronta, precotta, già sentita. Ma è anche una realtà metodologica mica da ridere. E così come non abbiamo mai implorato le istituzioni affinché chiudessero d’imperio, dall’alto, le vostre sedi, alla stessa maniera, e per lo stesso principio, siamo venuti a consegnarvi di persona un messaggio. Che nessuno, in futuro, scambi la nostra sovrana indifferenza per impotenza. Una sede in più o in meno, a noi cambia poco.
Ma i simboli sono fondamentali. Se così non fosse, ci sarebbero i lunedì sera di marzo o i primi pomeriggi di aprile. Quanti militanti avrete in quei giorni? Quanti blu? Invece nel mirino del luminoso pre-cena di sabato non c’era la vostra sede, come avete erroneamente compreso e riportato. C’eravate voi. Le vostre pratiche. Le vostre convinzioni. Voi, come soggetti trascendenti.
Ma alla fine, guardandoci le mani impolverate, o i jeans stremati da più di quattro ore sul pavimento di una questura, dobbiamo amaramente concludere che vi abbiamo sopravvalutato. Che la pratica di strada torna buona solo quando si danno. O quando si deve giocare a fare i reduci. A dire che un tempo, qui, era tutto diverso. Era tutta campagna. E i compagni dell’epoca si affrontavano coi fasci come i paladini delle Chanson de Geste. Secondo le regole della cavalleria. “Roba da anni Settanta”. L’hanno scritto pure i giornali. E magari lo condividete pure. Adoratori di una Costituzione che trent’anni fa avreste combattuto, adesso vi ripulite la faccia nel comune senso della decadenza dei costumi. E tutti a dire: “Che schifo, che vergogna”. Tutti ad assecondare lo schifo e la vergogna dei bravi cittadini neutrali. Ma ai bravi cittadini neutrali non interessano le nostre avventure, camerati. Non importa degli arrestati, del pane a costo zero, del signoraggio o del mutuo sociale. Ricomponetevi come banda. Che perdere una battaglia non è mai così deplorevole come perdere la faccia.

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