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WikiGreg

@thewikigreg / thewikigreg.tumblr.com

Interviste, recensioni e approfondimenti su musica italiana e internazionale. (si fa quel che si può)
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Sì ok non ci sentiamo da un poco

Ma non è questo il momento in cui parleremo di me, quanto di un problema che attanaglia la mia nuova vita: ma dove fanno i concerti in Friuli Venezia Giulia?

Risp sul mio, grazie, è impo.

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A dicembre per Lettera Emme ho fatto uno speciale di quattro playlist per ripercorrere i primi vent'anni di questo millennio. Una canzone per anno, una selezione praticamente impossibile che ha lasciato fuori un casino di bella roba È stato comunque molto stimolante, perché incastrare le varie esigenze, cercare di dar spazio a generi diversi (anche a un po' di musica italiana) è persino più complesso di quanto possa sembrare

Qua sopra la playlist, questi i pezzi singoli, lustro per lustro

1. 2000-04: http://www.letteraemme.it/2019/12/02/la-playlist-di-gregorio-parisi-per-sopravvivere-al-lunedi-62/

2. 2005-09: http://www.letteraemme.it/2019/12/09/la-playlist-di-gregorio-parisi-per-sopravvivere-al-lunedi-edizione-speciale/

3. 2010-14: http://www.letteraemme.it/2019/12/16/la-playlist-di-gregorio-parisi-per-sopravvivere-al-lunedi-edizione-speciale-2/

4. 2015-19: http://www.letteraemme.it/2019/12/23/la-playlist-di-gregorio-parisi-per-sopravvivere-al-lunedi-edizione-speciale-3/

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Che poi magari ci fossimo andati davvero mezza volta a fanculo in dieci anni

In quel marasma dell'università di Messina, una delle poche materie utili per chi coltivava l’utopia di vivere lavorando da giornalista era una che si occupava di pratica, un laboratorio in cui impaginare e riempire di contenuti una rivista di propria invenzione. Chiamai la mia Louder than bombs e il titolo era scritto con il font Bauhaus perché gli inside joke inutili sono da sempre parte della mia formazione culturale. Al suo interno inserii qualche vecchia recensione accumulata in un paio di anni di blog e una classifica, la top ten dell'annata che stava terminando; era il dicembre del 2009, regalai un gradino sul podio ai Pearl Jam che avrei visto per la prima volta live di lì a qualche mese e fui generoso perché la mia prima rivista avrebbe perdonato anche un disco francamente dimenticabile come Backspacer, ma il primo posto andò a un disco italiano. Alcuni colleghi straniti, un prof molto colpito: dare un 30 ad Andate tutti affanculo non è cosa da tutti i giorni.

"Vivere male, vivere tutti"

14/03/2010

La prima volta che intervistai gli Zen Circus nella figura di Andrea Appino fu al termine della data acustica organizzata dalla direzione artistica dell'attuale Retronouveau in un locale in centro; previste solo Catania e Palermo, si aggiunse questa data una domenica sera di metà marzo in cui mi si scaldò il cuore. Andate tutti affanculo è stata una folgorazione dal primo momento, da quando il mio amico Dario (non quello dei Vitalic) mi segnalò il disco, caricandolo poi su YouTube. La mia disillusione del tempo non aveva ancora trovato sbocchi concreti in italiano, se non nel primo, esplosivo album del Teatro degli orrori e in qualcosa di più vecchio. Gli Zen, però, erano altro. Si sentiva a pelle. Inevitabile. Iniziai il pezzo qualche giorno dopo proprio con il verso iniziale di We just wanna live. Ero inesperto, alle prime armi, evidentemente impreparato su alcune cose. Gli Zen venivano da un disco clamoroso come Villa Inferno, che nei mesi successivi al mio innamoramento avevo imparato a conoscere per bene; pensando a quanto successo in questi ultimi dieci anni, fa tutto veramente tenerezza.

Andate tutti affanculo è un lavoro che non ha mai avuto la pretesa di cambiare il mondo e non lo ha fatto, lo ha solo descritto con un cinismo imbarazzante e una lucidità sconcertante. La realtà italiana analizzata chirurgicamente nei modi di fare tipici del nostro paese, con delle figure di riferimento che sarebbero poi state riprese nei dischi successivi (perché l'amorale è l'egoista che prova a scaricare sulla natura umana le proprie colpe, mentre "il mio amico scrittore" svela quasi inconsapevolmente la sua reale identità nell'ultimo disco). Tra frasi emblematiche che sarebbero diventate slogan per i fan del gruppo e delle rese live che nel 2010 gli valgono il premio Tenco o qualcosa di simile come miglior tour, gli Zen fanno un salto di qualità e di popolarità importante. Non arrivano ai palazzetti, perché siamo in una fase storica particolare, in cui stava emergendo in modo prepotente la poetica vascobrondiana con relative scopiazzature; Appino, Ufo e Karim si piazzano in quella nicchia sotto il mainstream che significa stare sempre in giro e che implica un numero crescente di fan e un giro sempre più grande di pubblico. I comportamenti non cambiano, perché la sensibilità dei tre di saper leggere e descrivere la realtà si affianca a dei caratteri relativamente schivi, a una voglia di proseguire un percorso difficile che dieci anni dopo si sarebbe poi tradotto in una sconvolgente partecipazione a Sanremo—con un brano che di Sanremo non ha praticamente nulla.

Una delle frasi che ricordo di una recensione evidentemente acerba è "ti accorgi della grandezza di un disco quando non riesci a scegliere un brano che spicchi più di altri". Non ci sono filler né pause, abolite del tutto in episodi come Vecchi senza esperienza o in quella Gente di merda che è stato il singolo di lancio nella versione de Il paese è reale; dopotutto, non si poteva che presentare tutto l'ambaradan con un bestemmione neanche troppo velato. Non che sia una provocazione fine a sé stessa: Dio, posta la sua effettiva esistenza, è trattato qui come nel resto della discografia come un essere umano (o in alternativa un tiglio, dai) pertanto non poteva essere escluso dagli obiettivi di un album che non fa letteralmente prigionieri. Il voluto qualunquismo del titolo si contrappone alla precisione con cui le parole di Appino decapitano la società. La famiglia, il lavoro, il calcetto, la paura di sbagliare, di fallire, i cambiamenti: le tematiche non sono mai casuali, sono quotidiane e commestibili, conosciute, materia di tutti i giorni. Il fattore che rende tutto unico è il non salvare neanche sé stessi, è parlare in prima plurale, è il non mettersi su un piedistallo neanche quando si parla di "un miliardo di artisti ed in fabbrica nessuno" perché anche lì Appino ci sputa direttamente in faccia il livello parallelo di lettura. È un disco da leggere, sì, da ascoltare, sentire dentro, da affrontare senza pregiudizi. La chiosa finale di Canzone di Natale, dopotutto, serve anche a questo: ascoltatela oggi, sembrerebbe una presa per il culo a qualche personaggio della lega (che al tempo era ancora lega nord e va comunque scritto in minuscolo). Essere subalterni a una minoranza da cui dipende la propria felicità nella festività simbolo della tua religione, quel "Dio, fa' che non stia così male" messo lì prima della chiamata al mio Babbo Natale con le Nike di renna nuove, tutti livelli di lettura che aiutano a decifrare meglio un disco a tratti forse profetico, ma forse solo indicatore di come, in dieci anni, non sia cambiato proprio un cazzo.

Una fotografia impietosa di come eravamo, come siamo e come saremo: perché ci manderemo sempre tutti a fanculo, ma nessuno di noi sarà mai pronto ad andarci davvero. Purtroppo.

(vi voglio bene ragazzacci)
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Perché nulla cambi: la nuova libertà dei Fast Animals and Slow Kids

Ho iniziato a guardare BoJack Horseman in una serata in cui non avevo molto da fare e volevo capire se fosse la tipica serie osannata da tutti perché facilmente utilizzabile da chi gioca a fare il cinico sui social, o se effettivamente (a dispetto degli screen che mi capitavno davanti di tanto in tanto) ci fossero ben più livelli che creavano quello che possiamo definire l'effetto Bukowski, ovvero l'errata esaltazione di uno stile di vita basato su alcolismo e dissolutezza mentre l'autore cerca di evidenziare il proprio senso di colpa. Mi sono ritrovato a immedesimarmi più del dovuto in un protagonista pieno di difetti, a modo suo particolarmente sensibile e la cui costante voglia di estraniarsi dal mondo descrive bene il proprio malessere; ci ho pensato un po' su, e ho infine realizzato che BoJack Horseman è a modo suo uno degli Animali notturni del nuovo disco dei Fast Animals and Slow Kids.

"You’ll take this the wrong way but I think that you need to stop writing about yourself" "But no one ever writes about anything but themselves"

Queste due battute tratte dall'omonimo film di Tom Ford rappresentano il cortocircuito perfetto, perché Aimone e soci continuano a cantare dei cazzi propri come fatto in tutti gli album precedenti, con una parte di fanbase che si è rivoltata perché probabilmente più legata alla forma che al contenuto. La realtà ci parla di un disco tormentato, con dei suoni a tratti più luminosi del solito ma una ruggente malinconia che pervade praticamente tutte le dieci tracce, in ogni singolo episodio; come nel lungometraggio interpretato da uno spettacolare Gyllenhaal, il viaggio interiore serve a capire l'importanza delle proprie debolezze, di quella sensibilità prima sbraitata, oggi espressa in modo diverso perché dopo aver sentito più volte il contrario adesso Aimone è pronto per comunicarci che "dopo tutti questi schiaffi, dopo questi anni in copertura, io non ho paura" (Chiediti di te). Non c'è paura nel cambiare, nel non voler essere a tutti i costi alternativo, con la sostanziale differenza tra "essere" e "fare" il punk sottintesa in Canzoni tristi, non c'è timore neanche nel chiedere il proprio spazio con la metafora di un passaggio in radio, in un singolo che cita Battisti e, a dispetto di una sonorità effettivamente più commerciabile, mantiene dentro sé una rabbia di alaskiana memoria.

(con dedica a chi critica senza provare a capire)

La parziale vittoria nella lotta contro le proprie paure emerge anche dal punto di vista lessicale, perché a "petto" in Animali notturni si aggiunge anche quel "cuore" che mancava in tutti i testi di Forse non è la felicità: non un cambiamento sdolcinato ("Che sia di notte, senza dormire, la gola in fiamme, il cuore che sta per scoppiare", L'urlo) , ma quella che sembra una scelta precisa per riuscire ad arrivare anche sotto le magliette di chi non riusciva a condividere questa sofferenza perché parlava un linguaggio diverso (”Canto per te che non ascolti, per voi che vi state abbracciando”, Un’altra ancora). Il pregio principale di Animali notturni è quello di essere diretto e sfacciato, senza che i Fask tradiscano sé stessi ma mettendo le carte in tavola da subito, chiedendo a gran voce di esserci sotto palco, di stringerci più forte. È un disco per "non sentirsi mai più soli" (Animali notturni), perché il futuro che arriva mette paura a tutti anche quando sembra si stiano sistemando i frammenti della propria vita, e quella paura si combatte sempre dando forma ai propri fantasmi per poterli uccidere o, nel peggiore dei casi, poterci convivere (anche se poi, comunque, “quando il sole va giù quante paure”).

È con questa consapevolezza che arriva Novecento, il momento in cui "strappo i poster degli artisti che non sarà mai", il momento in cui la casa su Marte di Farse a vent'anni diventa ragionevolmente qualcosa di diverso, prende forma in un’abitazione e in un futuro vero, perché gli anni passano per tutti e la genuinità di saper parlare delle proprie emozioni, di riuscire a non ritenerle delle debolezze, è uno dei lasciti principali dell'album. Musicalmente è comprensibile restare straniti a un primo ascolto, ma è doveroso scindere il risultato effettivo dalle proprie aspettative: il disco è comunque tagliente e intenso, senza pause, senza filler, con la batteria contrariamente al passato spesso in primo piano rispetto ai riff di Guercini; era possibile replicare i dischi precedenti, con un tappeto sonoro più affine a Forse non è la felicità o ad Alaska, ma la scelta alla fine è fortunatamente ricaduta sull'evitare l'effetto Bukowski e fare i conti con la propria realtà, a volte buia, altre più luminosa, sempre su quel famoso percorso per raggiungere la felicità, consapevoli di poterci camminare solo restando fedeli a sé stessi, e non appunto alle aspettative che ci si porta appresso. Con le dovute proporzioni, è lo stesso "tradimento" che fecero i Pearl Jam nel post Vitalogy, quando a un disco malato, tormentato, frustrato fecero seguire No code, l'album della guarigione; al tempo Seattle cambiò qualcosa perché non cambiasse nulla, considerato che il fine ultimo della musica è essere onesti e trasparenti con il proprio pubblico anche in questo caso Perugia ha risposto fieramente presente a pieni polmoni.

Also, bonus meme:

Volevo salutare tantissimo i miei amici @fastanimalsask#fask #fastanimalsandslowkids pic.twitter.com/2fQHpXobFp
— Gregorio Parisi (@wikigreg) 11 maggio 2019
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Coez non vi sta neanche più ad ascoltare

Negli anni '90 su Topolino c'era un tipo di storia particolare, la storia a bivi; praticamente, se avete visto Bandersnatch, è appunto l'episodio interattivo di Black Mirror messo nero su bianco. La peculiarità di questo tipo di storia è quella di poter esplorare i diversi finali, i diversi percorsi, sapendo qualcosa in più ogni volta che torni a un bivio precedente e fai un'altra scelta per arrivare infine a esplorare tutte le conclusioni possibili. In qualche modo, mi piace pensare che una cosa simile sia successa anche a Coez quando ha iniziato a scrivere il suo nuovo disco, il quarto del suo "nuovo periodo", È sempre bello.

Dopo essere uscito dalla FIMI col carrello pieno di ori e platini sarebbe stato facile proseguire sulla stessa falsariga del disco che lo ha lanciato definitivamente al grande pubblico, ma la scelta del ritornellaro più famoso d'Italia è quella di prendere una strada diversa anche se non del tutto nuova; con Niccolò Contessa, produttore dell’album, prende le esperienze di Niente che non va e Faccio un casino, le mette insieme, le rielabora e quello che nasce è un disco che suonerebbe bene come seguito diretto sia dei due sopracitati ma anche di Non erano fiori. È come se il nuovo album fosse nato senza una precisa collocazione temporale, con evidenti richiami a un cantautorato da sempre nelle corde di Coez e la volontà di non accontentarsi ma, anzi, di perdersi nel cielo e allargare i propri confini.

Musicalmente la presenza di Contessa assicura una raffinatezza assoluta nei suoni sin dall'attacco di Mal di gola, con alcune perle pregevoli come Domenica e Aeroplani, che potrebbe essere il brano migliore scritto nel post Non erano fiori (precisazione doverosa perché La strada è mia farà sempre un campionato a parte). Proprio in Domenica troviamo una delle caratteristiche più particolari dell'album e della crescita costante di Coez, ovvero l'alternanza di ciò che sembra e ciò che davvero è, un equilibrio perfetto tra una delle citazioni a Vasco presenti in È sempre bello e una sonorità totalmente opposta rispetto a quella che ci si potrebbe aspettare da un omaggio al rocker di Zocca. Il citazionismo è uno dei punti cardine del disco, come in Vai con Dio, dove si unisce anche una scrittura à la Dalla che esalta quel "se ti hanno visto bere a una fontana / ero io" in uno dei pezzi maggiormente ricchi di riferimenti più o meno velati all'amore fisico, raccontato (contrariamente ad altre occasioni) più per immagini e doppi sensi abbastanza espliciti per tutto il disco, senza mai però cambiare davvero il registro linguistico selezionato.

La scelta di Bandersnatch iniziale, in fondo, è anche questa: le esperienze trionfali (perché solo di trionfo si può parlare) degli ultimi dischi hanno dato una marcia in più a livello di consapevolezza ed esperienza, una capacità migliore di selezionare parole e punti di riferimento, scostandosi quasi del tutto dal primo periodo della sua carriera per proseguire con una evoluzione sinceramente pazzesca. Resta, chiaramente, qualche medaglia rap su un petto pieno di riconoscimenti: il contrasto con le forze dell'ordine è giocoforza diverso da quello che può vivere un Massimo Pericolo, ma aver trovato nel vinile il posterone di "AMARE TE È FACILE COME ODIARE LA POLIZIA" è a maggior ragione simbolico di come le barriere musicali siano sinceramente poca cosa per chi ha fatto un casino che sta sconvolgendo da mesi la musica italiana.

C'è una cosa in È sempre bello che mi ha spiazzato, ed è l'assenza di una "difficoltà" che sottolineavo nella recensione di Faccio un casino, perché c'è una scissione profonda adesso nella vita musicale di Coez e in alcuni lati personali che non hanno probabilmente neanche più bisogno di essere cantati, ma le tasche sembrano davvero più leggere a distanza di anni. È forse anche per questa almeno apparente spensieratezza che le autocitazioni riescono anche ad assumere una nuova vita (il coltello di Non erano fiori in Fuori di me, o quella ironica di Jet in Gratis) e il mood resta quello di un viaggio verso una meta felice. Un viaggio magari guardando le nuvole, come fossimo su un aeroplano, ed è con questo pessimo stratagemma linguistico che mi collego al finale del disco, che coincide con il suo punto più alto.

La prima volta che ho ascoltato Aeroplani mi sono sentito strano. Era chiaramente la prima volta che finivo il disco e pensavo che il tappeto sonoro ipnotico mi avesse fatto perdere qualche passaggio del testo, per cui l'ho rimessa da capo. La sensazione è rimasta la stessa anche dopo il secondo ascolto, e tuttora quando l'album finisce è sempre spiazzante, come se ci fosse qualcosa di nascosto tra quelle righe, un detto-non detto che probabilmente potrà essere capito appieno solo dopo tanti ascolti—se effettivamente decifrabile. Una sensazione che impreziosisce, e molto, il lavoro di un artista diventato ormai grande, che non ha voluto accontentarsi di un successo facile neanche ora che avrebbe fatto almeno un altro platino proponendo una replica di Faccio un casino (che poi, dopotutto, "Ho alzato un gran casino e dopo tutto 'sto casino / come mai non sto bene?"). Coez ha ripreso un bivio precedente scegliendo un'altra strada ed esplorando un altro finale, un'altra conclusione, e conquistando un altro successo con un disco decisamente meno immediato ma di profondo impatto. È sempre bello va bene per l'ascolto in macchina mentre vai a mare ma è ottimo per quel venerdì sera in cui ti chiudi in camera con te stesso per provare a decriptare i perché della tua vita, quando ti senti "in isolamento / ma con un'isola dentro". È un disco che resta attaccato sulla pelle, sotto pelle, nel cervello, nell’anima; definitivamente un altro gioiello dell'artista che sta cambiando le regole della musica italiana ridendo su quell’odio che non vi fa mica bene.

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Questo niente di cui parlo sempre

C'è una scena che conoscete sicuramente anche se non siete mai usciti di casa per andare al cinema, anche se non siete mai andati oltre Natale in India come film per passare le vostre serate, e sto parlando dell'iconico momento in cui Elliot con la sua bici vola sovrapponendo la sua immagine a quella della luna grazie all'aiuto di ET. Prendo in prestito questa scena perché descrivere BEL89N non è per nulla facile, perché stiamo parlando di un disco rap che tende a riscrivere degli standard e che conferma Soulcè e Teddy Nuvolari, al quinto lavoro ufficiale insieme, come una delle coppie che ha più da dire in questo paese.

Succede che la metafora funziona bene perché il volo del duo arriva, sì, grazie a un innegabile talento naturale nei rispettivi ambiti, ma il continuo crescendo qualitativo dal debutto di Sinfobie a oggi è simbolo delle pedalate fatte per ritagliarsi uno spazio probabilmente troppo di nicchia, ma pienamente meritato in una scena spesso troppo simile a sé stessa per comprendere quanto fatto dai due ragusani. BEL89N non rispecchia canoni prestabiliti, ma punta a scriverne altri nuovi, già dall'attacco di Eindhoven che punta a fare selezione con quel "se non ti squarcio con le prime quattro rime stacca": non è attitudine gangsta, è 'solo' una presa di posizione di chi sta scrivendo un disco con una consapevolezza importante, quella di saperlo fare, ed è per questo che è libero di togliere via "metafore, fiabe e leggende".

Per certi versi BEL89N rappresenta un importante punto di arrivo, quello di una partenza delineata in Sinfobie con quella rima su Chet Baker e My funny valentine, però qui non si va a Manhattan ma ad Amsterdam a omaggiare proprio quel CHET che ispira tutto il disco. E le atmosfere dipinte su tela da Teddy Nuvolari aiutano a entrare nell'umore piovano di una metropoli che influenza i testi di un Soulcè mai così pieno di sicurezza nei propri mezzi, una sicurezza ribadita bene in Cougar in cui, oltre che con il testo, sono metriche e flow a determinare lo standard alto che l'artista ragusano si è imposto di superare. E per farlo ha usato un'astronave, anch'essa diretta discendente di quella che chiudeva Sinfobie, quell'astronave giocattolo del video di Lasciami andare (in cui veniva tra le altre cose citata Blue in green di Miles Davis, giusto per capire che Baker e il cool jazz non sono concetti nati a posteriori per darsi un tono—è semplicemente cultura, un qualcosa per cui oggi sembra quasi ci si debba giustificare); il volo di ET si consuma con traiettorie magiche, con l'arroganza di Montgmomery e l'intimità di Prayer, ma a rapire più di ogni altro brano è la chiusura, Chesney H. Jr.

Chesney H. Jr è il vero nome di Chet Baker, la firma finale su un lavoro alto, il concetto del cool jazz applicato al rap con una semplicità apparente inaudita. La bicicletta di Soulcè, con l'aiuto della magia di Teddy al beat, prende il volo per raggiungere un apice da palati fini. Quello che mi spingo a definire senza mezzi termini il miglior brano mai scritto da Soulcè & Teddy Nuvolari è una canzone che non ha niente a che fare con il rap in Italia, è un affresco di una scena che non esiste, avanguardista per quanto non presenti praticamente nulla di nuovo di per sé; una sequenza di immagini a fare da sfondo a confessioni personali, all'autopsia dell'anima, supportata musicalmente da un suono meravigliosamente citazionista ma che mantiene una propria forte identità.

Il viaggio, di base, finisce lì, senza risposte che non possono arrivare da un disco, perché un disco risposte non ne può dare. Può dare solo consigli, avvisi, conforto. Può mostrare una parte colta della musica che in questo paese tarda a essere riscontrata e riconosciuta, perché ogni folata di novità è più facile estremizzarla e portarla al ridicolo, e si finisce per valorizzare il sole e non la luce che si vede, come diceva un tale qualche anno fa. Il lavoro di Soulcè e Teddy va controcorrente, in quella direzione ostinata e contraria che anche con questo disco sarà probabilmente e tristemente riconosciuta da pochi, perché il coraggio di osare, di essere ciò che si vuole essere, non è da tutti. Perché quella bici non è una semplice bici, è un'astronave, una navicella spaziale che ha terminato il suo viaggio sulla luna. Se ti piace resta, sennò fa lo stesso, perché a chi questo viaggio l'ha capito e condiviso, davvero, non cambia niente.

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No escape from reality

Avevo cinque anni ed eravamo nella sala da pranzo. Allora si chiamava così, perché il salone non ce l'avevamo in quella casetta. Era il '94, e quel pc, il primo che abbia mai visto in vita mia, suonava il Greatest hits dei Queen. Lo sapevo a memoria, anche se non capivo nulla.

Ci ripensavo stasera sotto la doccia. I ricordi sono tremendi specie se quel giorno che stavo cantando Bohemian rhapsody io ricordo distintamente la serenità che si respirava in quei sessanta metri quadri di casa. Quando non avevo ancora voglia di piangere pensando a chi aveva promesso di esserci per sempre.

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Ormai su questa terra son tutti come te

Stamattina è uscito dal nulla il nuovo disco di Eminem e l'ho scoperto per caso mentre attraversavo a piedi la città ascoltando Biglietto per l'inferno perché sono un sentimentalone di merda e la morte di Canali mi ha fatto molto male. Nel disco nuovo c'è una canzone che si chiama Stepping Stone in cui chiude il capitolo D12 e ricorda con un bordello di affetto Proof che dei D12 era anche il mio preferito, ma in gran parte del disco punta a rimettere a posto le cose perché negli scorsi mesi è stato massacrato per un disco oggettivamente privo di particolari spunti come Revival. Kamikaze è un album violento che ho ascoltato in gran parte tra stamattina prima di entrare in agenzia e stasera tornando a casa. È un periodo strano per me e la sua voglia di dimostrare al mondo intero che si sbagliava nonostante non abbia praticamente più nulla da dimostrare mi esalta, perché quando si è presentata una sfida, quando ha sbagliato qualcosa ha ripreso i fili e ha rilanciato, sfornando un lavoro bellissimo. Lo pensavo mentre guidavo di nuovo la mia macchina che mi aveva abbandonato un paio di settimane fa, pensavo per sempre, ma anche la mia baby blue ha deciso di lottare ed è ancora qua. Perché chi vuole esserci non scappa mai. Chi vuole c'è e mostra di esserci, non importa se sia uno degli artisti più importanti della storia o una lancia Y blu elettrica.

Non si abbandona mai una battaglia se quella battaglia conta qualcosa.

Sulla terra regna una regina strana, abita in castelli formati d'ogni via, cambia abito ogni sera e si chiama ipocrisia.
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How to solve our human problems

Nell’ultima settimana ho superato l’esame di abilitazione al ruolo di mediatore immobiliare e l’ansia dei giorni trascorsi tra il mio orale e l’ufficializzazione dei risultati ha scatenato un paio di reazioni improbabili nel mio cervello, portandomi a due sogni molto particolari che vedevano protagoniste due persone a cui ho voluto molto bene.

Non sapendo come affrontare il tutto ho pensato alle ultime volte che mi era capitato di fare dei sogni così lucidamente autoreferenziali e ho ricordato quella mattina di gennaio 2017 in cui il cuore si era fermato apprendendo che una realtà davanti agli occhi di chiunque era invisibile solo a me, perché non desideravo saperlo. Ci pensavo prima, mentre Spotify suonava How to Solve Our Human Problems, l’ultimo disco dei Belle & Sebastian, una raccolta di tre EP originariamente pubblicati tra fine 2017 e inizio 2018; ci pensavo e provavo a capire come tendo io a risolvere i miei problemi, molto umani e spesso poco concreti, e mi sono accorto di un dettaglio molto importante, ovvero che in modo inatteso li ho legati all’alcol.

Il primo gin tonic di Davidino l’ho bevuto nell’ottobre 2016, una sera che possiamo definire senza timore di smentita uno dei primi mattoni nella disgregazione di qualcosa che non so cosa sia. Da allora difficilmente ho cambiato, così come prima ero stato un fedelissimo della birra prima e del whisky poi. Sono un abitudinario probabilmente, non rischio, se una cosa mi piace do inizio a un ciclo di mesi, a volte di anni, con pochissime eccezioni. Cambiavo solo al Lombardo, ma con Santoro era tutto differente perché lui stimolava a sperimentare—con buona pace del mio fegato ventenne.

Nelle ultime due settimane ho preso una decina di gin tonic, anche perché l’esame mi aveva consumato ogni fibra mentale in fase di preparazione e oggi, otto luglio, non ho ancora mai messo un piede nudo sulla spiaggia. Il cambio però è arrivato dopo, quando ho provato una vodka che non avevo mai assaggiato, ed è stata fulminante. Non ricordo il nome perché me lo dicono sempre quando sono ubriaco, ma era davvero favolosa. Avete presente quando vivete un momento in cui vi guardate da fuori? Ecco, io ero brillo, molto brillo, direi quasi ubriaco quindi non so se effettivamente mi sia separato per qualche momento da me, ma ho visto un piccolo lampo, un segnale che stava finendo una stagione. 

Mentre scrivo queste righe forse un po’ troppo aleatorie è partita Too many tears, la canzone che associo involontariamente ai due sogni di cui sopra, andando contro questa mia regola che la musica non va associata alle persone, ma certe volte sono le canzoni a scegliersi i ricordi a cui attaccarsi. Io posso solo accompagnarle con un bel cocktail, o con una vodka di cui non ricorderò mai il nome..

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Sono sempre il tuo speaker preferito

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