Grazie per questo regalo enorme di avermi fatto passare le ultime due tue settimane con te, per esserti lasciata assistere, lavare, coccolare e lasciarci fare delle cose (che erano più per sentirci utili concretamente che altro).
Ti ho chiesto scusa, non per avere il tuo perdono, ma per presentarti, come un'offerta, la mia (nostra) infinita piccolezza umana di fronte al dolore altrui, alla solitudine altrui, alla paura altrui.
Ti ho guardata piangere di disperazione e rabbia, senza poterti esprimere perché ti è stato portato via tutto: la vista, la parola, l'udito. Ho cercato di parlare attraverso le mani, anzi una mano, per cercare di toglierti da quel buio silenziosissimo della tua testa.
Ho pregato, sì, senza vergogna e sperando le mie preghiere valessero 100 volte tanto, che venissi guarita, che accadesse un miracolo, ma come giustamente dice S., "Ti immagini cosa sarebbe stato per lei essere miracolata, che più di qualsiasi altra cosa desiderava la normalità?". E allora ho pregato che ti lasciassi andare, che le medicine ti annebbiassero la mente e non riuscissi più a pensare, che il passaggio fosse dolce e indolore.
La verità è che ti sei aggrappata fino all'ultimo perché non ho mai conosciuto una persona con più fame di vita di te. Ho una foto in mente, che mi dà molta serenità, che ti ritrae con gli occhi chiusi, i capelli legati con la tua solita treccia, mentre rivolta al mare lasci che il vento ti accarezzi il viso.