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A dire il vero io volevo solo stare bene.

@steverogersdoesnotfondue-blog / steverogersdoesnotfondue-blog.tumblr.com

Buongiorno Stelle del Cielo! La Terra vi saluta! Mi chiamo Margherita e cerco un centro di gravità permanente che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose, sulla gente.
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Spesso me ne esco con pensieri e frasi talmente scollegati dal discorso precedente o comunque improbabili, che subito dopo mi fermo e mi chiedo ma che cacchio penso/dico. Oppure me lo dicono gli altri, fa lo stesso. Alla fine mi sento un po' scema in entrambi i casi. Ad esempio, un'amica mi stava parlando di un festival che faranno qui a settembre e nonostante la stessi ascoltando me ne sono uscita dicendo ma lo sai che se butti il sale sulle lumache queste muoiono? poi ho continuato il discorso iniziale come se niente fosse. Lei ormai mi guardava come se fossi un'assassina seriale di lumache ma il mio era stato solo un tentativo di confermare una cosa sentita alla tv e comunque funziona davvero (per la cronaca, lo provai sulle limacce che devastavano l'orto di mia nonna, quando avevo dieci anni).

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Un giorno mi trovavo alla stazione e stavo aspettando che sul tabellone delle partenze comparisse il binario di arrivo del mio treno. Non sapendo come impiegare il tempo dopo aver letto qualche capitolo del libro che mi portavo appresso e aver ascoltato qualche canzone, decisi di osservare meglio la fauna attorno a me. Niente di speciale da segnalare finché non adocchiai il sosia di Anthony Hopkins al banco dell'assistenza di Trenitalia. Ma quale sosia, era sicuramente lui. Peccato che collegassi automaticamente la sua persona al suo ruolo di Hannibal Lecter e ciò mi portasse ad immaginare che si servisse di tale posizione col fine di scegliere le sue vittime. Si accorse vagamente dell'insistenza del mio sguardo ma credevo che il mio destino fosse ormai scritto: una volta tornata a casa mi avrebbe sorpresa in qualche vicolo per poi uccidermi e mangiarmi. Mi salvai grazie ad un ritardo del treno (eh Trenitalia, che strano. Però Anthony avresti potuto approfittare del tuo lavoro per evitare intoppi nel tuo piano, e che te lo dovevo dire io?) e al posto mio morì un altro innocente. I giornali non ne parlarono e non vennero aperte indagini a riguardo. Ancora una volta Hannibal aveva scelto la vittima perfetta per non destare sospetti, ancora una volta l'aveva fatta franca. Lui al momento lavora nel medesimo posto e ogni tanto mi capita di vederlo. Lo guardo con decisione perché io so. Io so la verità, cosa successe nel marzo dell'anno scorso, quale crimine ebbe luogo. Chi credi di fregare con quella finta aria da lavoratore stressato, eh? Lo so io e lo sai tu, mio caro Anthony. Lo so io e lo sai tu.

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Non capisco. Qual è il senso di prendere una bella candela, tutta decorata, disegnata, dipinta, abbellita, se poi la si deve accendere? Ok se è semplicemente profumata lo concepisco. Ma se ha tutti i ghirigori, i fiori incastrati dentro o che ne so, perché prenderla? Per lasciarla lì, sullo scaffale? Per bellezza? Se volevi una decorazione ti prendevi qualcosa che non potesse venire accesa e distruggersi. Oppure la si prende apposta per vedere una cosa carina che prende fuoco e si esaurisce? Hanno lo scopo di ricordarti che le cose belle, prima o poi, finiscono? Che tristezza. Continuo a non capire. Forse perché in realtà non c'è qualcosa da capire, un punto a cui arrivare.

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Non rileggo mai quello che scrivo per il semplice motivo che mi prenderei a pugni da sola, il che forse non sarebbe poi così male. Vago senza meta, come una turista sprovvista di mappa, tra blog dove i post ti danno da pensare, ti fanno ridere o intristire, arrabbiare, riflettere, mettere in discussione le tue idee e fare considerazioni di ogni tipo e mi chiedo io che cacchio scrivo a fare se ogni porco giuda di volta mi esce un ammasso di schifezze epiche che maremma, mi tirerei davvero un pugno sul naso per quanto idiota mi pare tutto ciò che pubblico. Robe che manco i disegnatori di Peppa Pig. Vado negli altri blog perché evidentemente sono masochista e una parte di me mi dice lo vedi quanto sei cretina, e lo vedo sì, cosa credi. Mi sento dire che so scrivere e vorrei amputarmi le mani di fronte a chi lo dice perché non concordo assolutamente. E via pure i piedi, non si sa mai. Spesso questa gente allega a suddetta castroneria anche un e io invece faccio schifo. La prossima volta ti tiro un pugno e poi mi amputo mani e piedi. Poi li raccolgo da terra e te li tiro addosso, con cattiveria inaudita.

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Non capisco in quale specchio si guardino le persone che proprio non si piacciono. Credo sia un oggetto talmente sporco, rovinato e pieno di crepe, che l'immagine finisca così distorta da far paura. E più ci si specchia al suo interno, più ci si convince che quella sia davvero la figura che si è. Il guaio è quando ci si fa l'abitudine e si smette addirittura di guardare. E allora va bene, lascia stare gli specchi perché finirebbero inevitabilmente per darti un'immagine distorta dalla tua stessa negatività. Lascia stare e ascoltami se ti faccio un complimento, guardami e capirai che non basterebbe il tuo pessimismo per farmi cambiare idea, renditi conto che non dico le cose per caso e che posso armarmi di pazienza affinché tu riconosca quanto sono convinta delle mie parole.

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Pioggia acida.

A partire dalla scuola elementare per poi arrivare fino alle medie, quando si studiava/ripassava il ciclo dell'acqua (per quanto riguarda le precipitazioni) improvvisamente ed inspiegabilmente, mi concentravo a tal punto sul discorso che credevo si sarebbero risvegliati in me dei poteri in stile Matilda (ci spero tutt'ora ma niente), oppure che mi sarebbe esplosa la testa per il sovraccarico (per la serie: cose probabili). In particolare ero interessata alla parte riguardante le piogge acide. Purtroppo nei libri le spiegazioni non erano approfondite, perciò la maestra/professoressa di scienze di turno doveva rispolverare le proprie conoscenze in merito per soddisfare a modo la mia curiosità. Già di per sè il percorso dell'acqua era per me una cosa fantasmagorica, meravigliosa e incredibile e ok, figuriamoci la scoperta della pioggia acida. Bella la pioggerellina eh.. Ma vuoi mettere con la pioggia in versione badass, luce dei miei occhi e rovina degli ombrelli? Mi ricordo di aver guardato e letto attentamente ogni informazione presente sui libri e sulle schede in mio possesso, all'epoca. Non riuscivo ad immaginare dell'acqua in grado di rovinare addirittura la pietra. Mi chiedevo se avrei mai assistito ad un fenomeno simile e quanta pioggia sarebbe dovuta cadere perché la scuola venisse rasa al suolo; quanto avrebbe resistito l'ombrello al contatto; se mi sarei sciolta come il cattivo nel film Chi ha incastrato Roger Rabbit se non mi fossi riparata da qualche parte. Col senno di poi mi sono resa conto che sia stata una fortuna che un tale evento non si sia verificato, ma la mia curiosità di bambina è rimasta, seppur nascosta nei meandri del mio cervello. Un paio di mesi fa non me la passavo benissimo. Non che prima fosse tutto rose e fiori ma la situazione era andata via via peggiorando. I problemi mi seguivano ovunque, ero arrivata a credere che mi avessero impiantato un chip da qualche parte e che seguissero costantemente i miei spostamenti. Per fare un esempio, da un bicchiere rotto per sbaglio potevano nascere liti interminabili (perlopiù a senso unico) durante le quali si prendevano in rassegna tutti i miei fallimenti passati, presenti e, per non farsi mancare nulla, pure quelli futuri. Li si catalogava accuratamente per poi formarne una sorta di elenco orale da stamparmi in faccia. Era tutta una serie di ma avresti dovuto fare di più, così non è abbastanza, ma con te cosa devo fare, io ci provo e tu niente, eccetera. I problemi mi seguivano, passavano attraverso chi mi stava intorno perché così mi sarebbero potuti ripiombare addosso come dei boomerang, piovevano dal cielo, sbucavano dal terreno ed alla fine io stessa mi ero trasformata in un problema. Cercavo delle soluzioni ma sembrava che non fosse sufficiente, non giungevo mai ad una conclusione che fosse abbastanza buona, non sapevo dove sbattere la testa, dove ripararmi per riprendere fiato e poter mettere in ordine le idee, non sapevo che fare di me stessa. Ho cominciato a sentirmi corrosa da tutta la negatività che mi circondava e che avevo assorbito, mi sembrava di lasciare per strada la tendenza a pensare positivo. Ho finito per attaccare al chiodo tutto ciò che mi aveva permesso di sopportare le situazioni difficili, sentivo di aver abbandonato un ombrello importante ma la mia forza era giunta al livello lombrico e perciò me ne stavo impotente sotto la pioggia mentre aspettavo mi distruggesse. Camminavo, mangiavo, bevevo, uscivo, leggevo, disegnavo, ascoltavo musica ma ero sempre altrove con la testa. Pensavo di stare occupando un posto nel mondo inutilmente e che avrei dovuto lasciarlo ad un altro essere umano più meritevole, più umano e meno fallito. Mi definivo un fallimento con le gambe, un cucchiaio traforato, una sedia traballante. Inutile, da buttare, impossibile da riciclare. Psy mi disse che ero depressa, mi vedeva spenta e grigia, convinta d'essere tutto ciò che di negativo ho elencato prima e temeva per i pensieri autodistruttivi che mi passavano spesso per la testa e soprattutto del fatto che mi sembrassero delle buone idee. Le raccontai che un giorno, mentre aspettavo che il semaforo diventasse verde per attraversare la strada, pensai di fare un passo poco prima che il tram mi passasse davanti. Glielo dissi sorridendo, come fosse un pensiero logico, il più ovvio e naturale che potessi fare. Lo dissi a cuor leggero, come chi pensava di fare un atto sensato, che avrebbe tolto un peso a chi gli stava intorno e a se stessa. Quando finii di descriverle la scena feci un sospiro di sollievo, immaginavo il momento e di come mi sarei sentita leggera subito dopo. Mi mandò da una sua amica psichiatra (Psy è psicoterapeuta) perché cominciava a preoccuparsi che il suo aiuto non fosse sufficiente, diceva che la mia convinzione diventava sempre più forte e che temeva per i miei stessi ragionamenti. Non ci andai mai. Elaborai una strategia alternativa, sembrava che cominciassi a ricordare dove era rimasto il mio involucro di aspetti e visioni positive ed ottimiste. Decisi di fare qualcosa o almeno di provarci. Per la prima volta seriamente, per me stessa. Psy spesso mi ripeteva che l'ambiente nel quale vivevo non era l'ideale. Le persone con le quali ero costretta a stare a contatto le consideravo sopportabili a piccole dosi, altrimenti letali al pari del cianuro. Cominciai cambiando casa e trasferendomi in un appartamento con altre due coinquiline. Feci tutto da sola e a volte con l'aiuto di Psy, ma per la maggior parte mi arrangiai. Andai contro lo scetticismo e la negatività delle mie due parenti, sfidai le loro critiche e le loro ansie, il loro vittimismo e il continuo cercare di farmi sentire in colpa. Mi sentivo Hulk senza aver assunto un colore verdastro, in grado di fare breccia nel muro che in precedenza mi aveva bloccata e rinchiusa. Sono uscita e mi sono sistemata, in barba agli oscuri presagi fatti dal parentame che non faceva altro che gufarmela. Quando Psy mi dice di essere piacevolmente soddisfatta del mio impegno e di essere orgogliosa, un po' sono d'accordo con lei. Ho dimostrato di essere in grado di cavarmela da sola in tutti i sensi, di riuscire a prendere in mano i cocci e di ricompormi, di togliermi di dosso l'etichetta con su scritto fallimento a caratteri cubitali, ora devo solo (solo) tenerlo a mente. Nonostante i problemi ci siano stati anche in seguito e ci saranno sempre, dovrò ricordarmi l'ombrello e la mia tuta anti negatività per far fronte alle difficoltà. Sai cosa? Per sicurezza ci attacco le targhette con su scritto nome ed indirizzo, non si sa mai eh.

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Descriversi con un aggettivo.

Quando alla scuola materna, nei primi giorni di ogni anno (più o meno), mi veniva rifilata questa consegna la mia reazione era circa un miscuglio di ma come? Uno solo? Negativo o positivo? Davvero devo usarne solamente uno? Perché? il tutto si concludeva con un ma non lo so, uffa! detto con un tono talmente esausto che sembrava avessi appena terminato la maratona. Così cominciai a riciclare abilmente gli aggettivi che mi venivano attribuiti dagli altri, in modo da facilitarmi il lavoro e fornire una volta per tutte una risposta al terribile interrogativo. -Allora Margherita, come ti descriveresti? -Simpatica. -Come mai? -Perché me lo dicono i compagni. Diciamo che c’ero quasi, rimaneva da perfezionare la mia ultima motivazione ma per il resto ci si poteva accontentare. Mi accontentai per anni e di volta in volta, quando la stessa domanda mi venne riproposta, rifilai la medesima risposta cercando di omettere la spiegazione quando possibile. Con il tempo, oltre a simpatica e ai suoi vari sinonimi, mi sentii definire artista dalla professoressa di economia e una persona particolare da S. Invece per quanto riguarda gli aggettivi negativi.. Beh, tra quelli che mi attribuisco da sola e quelli suggeriti da persone esterne ce ne sarebbero per tutti i gusti. Il più gettonato tra conoscenti, sconosciuti e persino me stessa è sicuramente sfigata. Sia per quanto riguarda lo status sociale dal punto di vista gerarchico ma anche considerando il significato proprio del termine. Ecco, se c’è una cosa in cui posso distinguermi è l’essere sfigata. Certo, se si considerano altre realtà come i bambini africani, gli albini in Zimbabwe e in Tanzania, i poveri in generale, eccetera, allora la mia sfortuna non può competere con la loro. Quindi preciso che mi distinguo sì, ma solo nel mio piccolo, ecco. Dal punto di vista estetico sono sempre stata collocata nel fondo della piramide ed etichettata come sfigata, che non è altro che un modo più carino di dire ad una persona quanto è brutta. Ed io ci sarei andata a nozze vita natural durante con quell’aggettivo, perciò quando passai a sfigata lo considerai un passo avanti (quando di fatto non lo era per niente). Successivamente quel termine assunse una sfumatura differente quando decisi di fare mio anche il suo significato di base. La nuova adozione avvenne in seguito a delle voci che sentii correre a scuola e in autobus, secondo le quali essere senza genitori/essere depressa/essere depressa perché senza genitori/vivere con mia nonna perché rimasta orfana erano motivazioni sufficientemente valide per definirmi tale. Non me la presi a male perché non ne vidi e non ne vedrò mai il motivo, più semplicemente cominciai a rendermi conto che in un certo senso mi trovavo d’accordo con il loro pensiero. Cavolo, a chi succede di perdere un parente all’anno per quattro anni di fila? Beh certo, se vivi con i tuoi venti parenti in una palude in compagnia di zanzare in grado di trasmetterti la malaria allora non posso competere, concordo. Non che sia un vanto, per carità, ne avrei fatto a meno se avessi avuto un minimo di potere sulla situazione. Ma dato che è successo quel che è successo, perché non prenderla sul ridere? Non quel riso tipico di una barzelletta, di una battuta o film divertente; di base rimane un po’ di amarezza che però non mi impedisce di reagire in questa maniera. Di fronte alla cronologia dei lutti che vedeva rispettivamente mio nonno materno, mia nonna paterna, mia mamma e mio papà in quest’ordine, mi chiedevo a chi sarebbe toccato il quinto anno. Me? Mio fratello? Qualche zio? Nella mia mente c’era una sottospecie di ruota della sfortuna che girava e girava per poi fermarsi, ad un certo punto, indicando il nome di qualcuno. Macabra la cosa, ne sono consapevole. Ancora più macabra se si considera quanti conoscenti deceduti mi circondano. Direttamente o indirettamente che sia, qualcuno inevitabilmente sparisce. E’ un aspetto che ho cominciato a notare di recente ed è come sentirsi costantemente accompagnati dalla sensazione di essere tenuti d’occhio da uno sconosciuto ma allo stesso tempo da una persona nota. Non mi sento più esperta di altri, non mi vanto di essermi ritrovata con la famiglia decimata in poco tempo e non è una qualità; ma averci fatto i conti mi ha portata a considerarla davvero parte della realtà.. Della mia realtà. Prima della scuola media non mi dilettavo in frequenti riflessioni riguardanti la morte, ora la posso considerare una duplice figura. Uno sconosciuto che mi osserva in lontananza e, contemporaneamente, una conoscente che mi controlla. Una sensazione di leggero disagio e soggezione mista agli opposti di questi stessi aggettivi. E’ strano ed è una di quelle esperienze che per essere comprese andrebbero vissute e anche in quel caso potrebbero non essere condivise (ovviamente non auguro a nessuno di potermi capire, s’intende). Inizialmente io stessa avrei tirato un pugno sul naso a chi si fosse azzardato a dire una cosa simile qualche anno fa; adesso invece, dopo aver passato molti mesi in un vero rollercoaster emotivo, posso permettermi la reazione che mi pare. Durante il mio percorso (tutt’ora in atto) ho quindi finalmente attraversato e concluso la tappa riguardante la ricerca di un aggettivo (ce ne sarebbero altri ma li tralascio per comodità) che mi rispecchiasse, non solo dal punto di vista altrui ma anche da quello strettamente personale: posso ufficialmente definirmi sfigata e riderci su.

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Tu, che continui a vantarti da mezz'ora del fatto di essere stata la prima persona in assoluto ad etichettare la frase "accettiamo l'amore che crediamo di meritare" come frase preferita, e da altrettanto tempo continui a lamentarti della gente che ti ha palesemente copiata perché ovviamente il centro del mondo sei solo tu e l'universo è stato costruito attorno a te, beh allora accetterai anche le librate che credo tu e il tuo infinito egocentrismo misto a spocchia meritiate.

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Un superpotere chiamato fantasia.

Da piccola, quando guardavo la televisione e ancora facevo caso alle scritte che scorrevano in basso allo schermo, credevo di riuscire a rallentarne la velocità per poterle leggere meglio e che ciò indicasse lo sviluppo di qualche potere speciale. Anche osservando i granelli di polvere svolazzare tra i raggi di sole che passavano attraverso le tende, mi chiedevo se fossi in grado di poterli davvero fermare per qualche secondo come ero convinta di saper fare. Potevo forse ricreare una sorta di piccola assenza di gravità in una zona circoscritta? Congelare il tempo a mio piacimento? A viaggiare libera, più forte di qualsiasi cosa che teoricamente l'avrebbe dovuta trattenere, era la mia immaginazione che se ne infischiava dell'atmosfera. Quando partiva andava chissà dove a vagare nello spazio ma fortunatamente rimaneva attaccata a me, grazie ad un filo d'Arianna ritrovava sempre la strada del ritorno. Ho passato momenti durante i quali immaginavo e fantasticavo per la maggior parte della giornata e a proposito delle cose più disparate. Non mi servivano spunti, partivo da sola per la tangente e potevo continuare per ore. In altri momenti la mia capacità si seccava, si inaridiva a tal punto che temevo si sarebbe sgretolata, lasciandomi definitivamente incapace di vagare con la fantasia. Alle elementari c'era una materia chiamata immagine, una sorta di laboratorio creativo che poteva riguardare sia il disegno sia la scrittura. La maestra che la insegnava si chiamava Vincenza ma tutti la chiamavano Enza e portava sempre i capelli corti ma non troppo, color melanzana ma anche un po' ribes e un po' nocciola. Capelli color maestra Enza. Aveva un sorriso a dir poco smagliante ed una risata contagiosa che se mi concentro posso sentirla ancora. Comunque fu una delle prime a notare quanto tempo passassi a fantasticare, a considerare i dettagli più insignificanti perché riuscivo a ricavarne moltissimo, a collegare cose impensabili ed inventarmi storie/oggetti. Se ne accorse quando assegnò alla classe un tema sull'inverno ed io me ne uscii con qualcosa basato unicamente su quello che potevo osservare dalla finestra dell'aula ma che comprendeva ugualmente tutte le caratteristiche della stagione. Ne venne fuori un compito così bello e ben scritto che volle leggerlo davanti a tutta la classe e da quel momento mi resi conto quanto la mia immaginazione potesse viaggiare a briglia (quasi) sciolta in qualsiasi circostanza. I giorni, i mesi, gli anni passavano e tema dopo tema la mia (presunta) capacità veniva lodata, ma la scuola elementare presto o tardi sarebbe terminata. Non ero preoccupata, sapevo che la scuola e anche i docenti sarebbero cambiati ma quello che c'era nella mia testa l'avrei portato con me. O così credevo. Alla scuola media la materia che adoravo non esisteva e speravo di potermi rifare nei classici temi di italiano. Anche la nuova professoressa avrebbe trovato qualcosa di rilevante in me? Attendevo il primo tema per scoprirlo. La prof si chiamava Susanna, in genere portava jeans a vita alta in stile muratore, scarpe con la suola quasi del tutto staccata, capelli raccolti spesso e volentieri in una coda di cavallo e maglioni cadenti che sembravano molli quanto la pasta di pizza. La faccia era rugosa e cadente per una donna della sua età, come se la forza di gravità esercitasse un effetto maggiore sul suo viso (in realtà tutto era dovuto alla quantità industriale di sigarette che fumava ogni giorno). Scrissi il tema con uno spirito così speranzoso che quasi avrei potuto rinchiuderlo nella penna ed usarlo come inchiostro. Lo consegnai e riposi in quel malloppo di fogli (sono sempre stata prolissa) la possibilità di colpirla in positivo, di fare centro nonostante di studenti ne avesse avuti a migliaia. Il giorno in cui li riportò corretti ero molto in ansia, incrociavo l'incrociabile e quando mi trovai di fronte alle correzioni sentii qualcosa staccarsi da me e volare via. Quel qualcosa che negli anni precedenti era sempre stato apprezzato dagli insegnanti mi aveva lasciata e mi chiedevo da quel momento come sarebbe andata. Per mia sfortuna Susanna era convinta che per spronarmi a migliorare sempre più (non solo in italiano) fosse necessario rimproverarmi, mentre il risultato che ottenne fu una chiusura totale da parte mia. Svolgevo i temi come un automa perché mi bastava raggiungere la sufficienza e nelle interrogazioni non appena mi sentivo aggredita smettevo di parlare nonostante sapessi gli argomenti. I temi erano diventati degli ostacoli spiacevoli da incontrare sul mio cammino e scrivere mettendoci del mio era fuori discussione. Passai molto tempo convinta di detestare lei, le sue convinzioni sbagliate, i suoi metodi per "incoraggiarmi" ed infine le sue materie (perché, giustamente, trovavo che fosse meglio impuntarsi con l'insegnante di ben tre materie). Finalmente anche le medie terminarono e alle superiori cambiai professori ogni anno, il che mi fece capire quanto fosse determinante la persona con la quale mi sarei dovuta rapportare per tutta la durata dell'anno con l'andirivieni della mia inventiva. Anche se da piccola non erano necessari degli spunti mi faceva comodo una compagnia positiva, un ambiente che favorisse il tutto anche se in minima parte. Senza quel minimo mi sentivo oppressa e mi chiudevo, perdendo la parola, la curiosità, la fantasia e molto altro. Fino a pochi mesi fa vivevo in un ambiente opprimente, soffocante, direi persino malsano. La mancanza di comunicazione, della libertà di pensare e della curiosità sono stati alcuni dei segnali del mio disagio. Un giorno me ne stavo seduta in stazione ad aspettare l'autobus ed osservavo le persone correre freneticamente da una parte all'altra, parlare tra loro, trasportare enormi borsoni o ventiquattrore, ascoltare la musica, leggere un libro, ecc; ma non mi chiedevo dove stessero andando, non immaginavo possibili storie e destinazioni, discorsi, misteriosi contenuti, canzoni in riproduzione negli iPod/mp3, titoli di libri e quant'altro. Mi limitavo a guardare, tutto e tutti mi erano indifferenti e la mia mente era vuota, priva di qualunque attività. Dopo essermi finalmente trasferita ho notato subito un cambiamento generale e mi sono sentita sollevata. Sollevata e contenta di poter contare nuovamente sulla creatività e della capacità di richiamarla a me, esattamente come succedeva molti anni fa.

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Mike, ma gira 'sta ruota?

Ultimamente mi sono sentita parecchio dimenticata/messa da parte/lasciata in standby perché tanto chissene frega eh/abbandonata al mio destino. Questo da parte di alcuni famigliari e amicizie che credevo strette ma che evidentemente BEEEEEP! sbagliato, non lo erano. Presente quella frase infima che ti sbatteva in faccia con nonchalance l'evidente sconfitta? Forse quella è game over. Diciamo allora la seconda, quella che sì ti rinfacciava il fallimento ma cercava di infonderti quel minimo di speranza necessaria a ricomprare l'ennesimo pacchetto di kinder cereali per la minima possibilità di trovare la scritta HAI VINTO! (sì, l'indigestione). Mi riferisco alla frase ritenta e sarai più fortunato. Il mio periodo di sfighe in fatto di famiglia e amici va avanti da qualche mese e durante questo periodo ho passato in rassegna tutte le possibili conclusioni/spiegazioni per quello che stava accadendo. Dal farmene una colpa, al pensare di dedicarmi ad una vita solitaria e migrare in qualche posto sperduto privo di civiltà, a dirmi che tanto sto meglio da sola, di gettare la spugna e smettere di coltivare amicizie e seminarne di nuove. Ricerche senza fine riguardanti i motivi del distacco del mondo nei miei confronti a parte, sono arrivata ad un paragone che più ci penso più mi pare azzeccato. Posso anche aver perso la fiducia in alcuni rapporti interpersonali ma l'importante è non perderla in generale, perché i fattori da considerare sono tanti e fortunatamente ci sono tante persone al mondo e diversissime tra loro. Si tratta di riprovare e non perdere la speranza che sì, la prossima volta potrei essere più fortunata.

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Un peso.

L'altra sera ho preso sonno facilmente, il che è strano. Ovviamente il karma si è messo in moto per rimediare subito a questo fatto, rendendo le restanti otto ore di sonno un tormento. Pareva di trovarsi dentro l'impasto nelle mani di un panettiere, un rimestamento continuo. I miei sogni erano confusi: pezzi di litigate passate che ancora non sono riuscita a dimenticare e smaltire correttamente nell'apposita campana dei rifiuti, questioni in sospeso come quelle che tengono i fantasmi a vagare nel nostro mondo, rimorsi e ancora rimorsi, che poi ci si chiede come mai soffra di bruxismo durante la notte. Ad un certo punto del sogno una litigata in particolare ha lasciato in me un peso. Un peso sullo stomaco, forse. No.. Non capisco bene dove sia. Un peso che si muove, può essere? Mi sveglio leggermente e finalmente capisco: un peso di 3,8 kg piazzato sul mio stomaco in una sorta di remake scarso della pubblicità del Brioschi. Ma proprio lì dovevi metterti a dormire, cane diabolico che non sei altro?

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Crisi di coppia.

Non vediamo l'ora che arrivi la fine della giornata per poterci finalmente sdraiare a letto. Io dal mio lato, lui dal suo. Anche se si sta leggermente stretti va bene così, che quando fa freddo fa comodo essere in due. Ci metto un po' ad addormentarmi in questo ultimo periodo, quindi per un paio di minuti rimango rintanata nell'ombra ad osservarlo. Lui si gira e si rigira, servono alcuni tentativi per trovare la posizione ottimale ma alla fine, dopo essersi avvolto nelle coperte, la trova. Eppure non lo sento soddisfatto, è irrequieto e a secondi ricomincerà ad agitarsi. E puntualmente ricomincia. Con le mie grandi doti recitative affinate in questi anni di convivenza che mi permettono di fingere con nonchalance di stare dormendo, mi giro verso di lui alla ricerca di qualche particolare che possa aiutarmi a capire i motivi della sua agitazione. Girandomi scopro che anche lui è girato nella mia direzione. Mi sta guardando insistentemente e non accenna a smettere. Hai mangiato, hai bevuto, siamo andati fuori.. E' ora di dormire perciò vedi di smetterla di fissarmi in quel modo perché mi inquieti, Spike.

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L'ombrello è lo specchio dell'anima.

Sì beh, insomma, più o meno. Fino ad ora, tutti gli ombrelli che ho avuto non sono stati scelti da me. I primissimi sono stati quello del Gabibbo (non sto scherzando) che aveva proprio il personaggio al posto del manico, e quello dei Digimon, dal quale successivamente ritagliai le figure perché nonostante la struttura portante fosse da cestinare, il resto mi sarebbe dispiaciuto troppo buttarlo via. Il mio primo ombrello da persona seria, o presunta tale, mi venne regalato da mio fratello per il compleanno. Mi ricordo che tornò dall'Olanda con un paio di cose e mi sentivo onoratissima di ricevere così tanto da lui. Bilancio: un paio di calzini a righe multicolore. Appena li presi in mano sperai che i miei piedi non sarebbero cresciuti in modo da poterli mettere vita natural durante, quello che non sapevo ancora è che in breve tempo sarebbero lievitati fino a raggiungere la grandezza di quelli di un troll adulto, costringendomi così a mettere da parte gli adorati calzini. Il secondo regalo che mi trovai davanti fu un righello con calcolatrice incorporata. La mia vita alle prese con la matematica non ne risultò facilitata ma nella classe ero l'unica ad averlo e mi sentivo una bambina potente. E infine, per tornare al discorso iniziale, tra i regali c'era anche un ombrello molto neutro, piuttosto anonimo direi.. Color arancione. Fosforescente. Ne deduco che mio fratello credesse che stessi vivendo sul filo del rasoio nonostante la giovane età, sempre in mezzo ai pericoli, ed era meglio annunciare la mia presenza nei vari luoghi con leggero anticipo. Purtroppo anche l'ombrello, come i calzini, durò poco. Esalò il suo ultimo respiro sotto alle chiappe di una mia, non molto esile, compagna di catechismo. Avrei voluto dargli una degna sepoltura per poter scrivere sulla lapide la seguente frase "Ti ricorderemo come un tulipano sbocciato in mezzo alla triste folla". Ne seguì un periodo di buio, probabilmente per via del lutto riguardante il vecchio ombrello olandese, durante il quale mi rifiutai di accettare qualsiasi rimpiazzo. Mi ammalai di frequente perché mi ostinavo a starmene in mezzo alle intemperie senza coprirmi, ma era importante preservare il ricordo del caduto e sopportare. La fine del periodo di lutto è avvenuta qualche anno fa, ed è segnata dall'arrivo di un sostituto che definire indegno sarebbe un complimento. Qualcuno, come ad esempio l'azienda che lo ha fabbricato, lo definirebbe un ombrello innovativo in grado di svolgere una doppia funzione: riparare e, in caso di vento, rovesciarsi e raccogliere acqua piovana che può sempre tornare utile. Io invece posso definirlo solamente in una maniera: inutile quanto un cucchiaio traforato per mangiare la minestra. Preferivo uscire e stare in balìa del diluvio universale piuttosto di usarlo (anche se alla fin fine, usarlo o meno non faceva differenza). Recentemente è entrato a far parte della mia vita un ombrello nel quale ho riposto tutte le mie speranze. Nel cartellino dove c'era il nome della marca ho notato in particolar modo la frase sottostante. "Oltre l'ombrello" (magari pure verso l'infinito?). Wow, addirittura oltre?, ho pensato. Dopo un passato fatto da ombrelli resistenti quanto un foglio di carta di riso o che erano stati ridotti ad una sottiletta, mi aspettavo una cosa che apparentemente poteva dare l'idea di un comune ombrello ma che in realtà si sarebbe rivelato un Transformer portatile, o qualcosa del genere. Invece niente robot segreti, niente armi inaspettate alla Assassin's Creed, nessun sistema anti-schiacciamento da culo. Il suo pregio è quello di essere anti-vento, però. Con il mio nuovo scettro sento di poter finalmente affrontare le tempeste e i tornado. Analizzando l'aspetto estetico di ogni ombrello e il periodo nel quale li ho usati, sono giunta ad un'interessante conclusione (nessuna base scientifica, come al solito le mie idee sono campate per aria perché, come mi venne fatto notare da una persona che ovviamente non lo ricorderà affatto qualche tempo fa, tendo ad usare l'emisfero destro del cervello, ovvero la parte "artistica". Sì insomma io l'ho fatta tanto semplice e terra terra ma il discorso sarebbe più ampio ma lascio sta' ch'è meglio. Perciò ecco, addio spiegazione sensata per le moltitudini. Se non so fornire una solida base alle mie affermazioni è colpa del mio lato artistico che prevale). Il colore/la fantasia in qualche modo rispecchiavano il mio stato d'animo. Tralasciando i primi che vabbè, di certo non potevo dire di sentirmi (almeno, non all'epoca) la versione femminile del Gabibbo o un mostro con gli artigli in grado di evolversi; partendo dall'ombrello catarifrangente direi che mi ci sentivo intonata perché non avevo preoccupazioni particolari ed ero allegra, solare, senza pensieri. Il numero due, quello sensibile al minimo soffio di vento, era nero. Nero come il periodo che stavo passando, l'umore che avevo per la maggior parte del tempo e per nulla resistente. Sono in dubbio, invece, sul nuovo favorito. E' comunque nero ma con dei fiori arancioni che risaltano. Il mio umore, in fondo, è rimasto cupo ma ogni tanto c'è qualche sprazzo di positività che riporta un po' di colore. L'unica caratteristica che mi lascia dubbiosa riguarda la resistenza, dove l'ombrello mi supera di netto. Lui ha il motto scritto sotto al suo nome ed una serie di pregi niente male, io non me la sento di competere. Non per il momento. Ma un giorno potrò dire che sì, il mio ombrello mi rappresenta davvero.

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Tanto fumo e.. Niente, solo tanto fumo.

Ho tentato di fumare quei dannati cilindri pieni di tante schifezze che per quanto si cerchi di renderli gradevoli da guardare, mai li troverò altrettanto gradevoli da consumare. Poco importa che ne esistano tante marche, tante varianti, tanti gusti.. Semplicemente non fa per me. Qualche mese fa volli provarne una per capire che cosa ci trovasse un'amica che così, di punto in bianco, aveva cominciato a fumarne una ogni tanto. Alla fine io non ci trovai nulla.. Ed era lo stesso che ci trovava lei, infatti credo che fosse delusa della mia reazione perché forse sperava che avrei saputo aiutarla a capire le sue ragioni. E invece. Un paio di settimane più tardi una conoscente mi allungò un altro genere di sigarette. Non parlo di canne et similia ma di sigarette al mentolo. Diceva che avevo l'aria di quella che fumava, io però non ci trovai nulla di piacevole e ci feci la figura della scampata vittima dall'incendio dato che non la smettevo di tossire. Giorni fa ci ho riprovato, ci sono marche diverse, magari c'è qualcosa che mi piacerebbe, ho pensato. All'improvviso mi era balenata nella testa l'idea di tentare di nuovo. Avrei provato perché mi andava di farlo e non per aiutare qualcuno a capire il perché del suo gesto, non per rendere realtà la visione che aveva di me una conoscente. Solo per una mia scelta, per quanto fosse futile l'obiettivo. Il risultato? Lo stesso delle volte precedenti, forse anche peggiore. Ho sentito il fumo all'interno del mio corpo, l'ho sentito mentre scendeva e sentirlo risalire è stato ancora più insopportabile. Immaginavo un piccolo dissennatore che mi straziava e che, nel tentativo di fuggire, sbatteva contro ogni organo nelle vicinanze (promemoria: piazzare mappe in giro e munire di navigatori corporali i futuri ospiti). Il cuore che accelerava per via della nicotina, l'odore sulle mani che sembrava essere immune ad ogni sapone.. No grazie, non è una cosa che mi appartiene. Alcune persone sono esattamente lo stesso, esteriormente possono sembrare attraenti ma una volta che provi la loro compagnia cambi inevitabilmente idea. Magari non proprio la prima volta, ok, diciamo la terza come è successo a me per le sigarette. Stai con qualcuno che a prima vista ti attirava, poi ti accorgi che è meglio non averci troppo a che fare e decidi di smettere, ché si sa sia meglio smettere di fumare ma anche smettere di stare a contatto con certa gente non è una brutta idea.

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Quando fanno un film ispirato ad un libro lo attendo aggrappandomi al cuscino come si fa nel momento cruciale di un film horror o quando si è in trepidante attesa di qualcosa di positivo. Non sono mai sicura di quello che vedrò e, soprattutto, se quello che mi ritroverò davanti soddisferà le mie aspettative. E' una cosa parecchio difficile. Pensa se si dovessero soddisfare i desideri di tutti.. Esisterebbero miliardi di versioni differenti dello stesso film e qualche persona insoddisfatta rimarrebbe in circolazione in ogni caso. A volte preferisco rimanere all'oscuro di tutto ed evitare certe cose come la peste. Credo che ogni tanto sia meglio tenere la propria idea, le proprie fantasie e continuare a basarsi sulla propria immaginazione che rischiare di vedere tutta l'opera di costruzione mentale andare distrutta.

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