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Fütter mein Ego

@coldperfection

È possibile essere apolidi?
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Sia pure in maniera ottusa, l'avevo sentito che, raccontando la storia di lui, sarei arrivata a questo punto: in una zona d'ombra lavorata da un tarlo che, risalendo dal profondo, a lungo, a lungo mi aveva incalzata, sgretolando. Figuriamoci se non ce la facevo a tirarmi indietro, a tergiversare; con garbo, si capisce, con garbo propiziatorio. Sì che mi rifugiavo nei ricordi di me bambina, con lui accanto, e della nostra straordinaria alleanza. Che luce bella, che vasta chiarezza, in quel tempo, anche se si trattava di dolore. Ma quel tarlo non mollava. Finii col percepire il suono del suo sordo rosichìo. FInché un nome dovetti pur darglielo a questo segugio paziente: il suo vero nome. Rimorso, si chiama. Il rimorso è un poliziotto speciale. Ti dà tempo, perché sa che non gli sfuggirai. Può darsi magari che, per suo gioco, possa allungarti la vita. Sei sua. Sì che ti lascerà correre, svicolare, fermarti; però poco a poco t'insinua il sospetto d'avere la palla al piede. Oh, si puì tirare avanti anche così, dici; ma, ad una svolta, e sei già un po' smarrita, sospettosa, ecco che ti piglia per il petto. Non c'è scampo. Le pupille non hanno nemmano la frazione d'un millimetro per uno scarto. Altro che spalle al muro. Sei in croce; e un grande riflettore di luce bianca, fermissima, ti è addosso e ti circonda. Che forza imponente, il rimorso. Nulla che fare con i castighi liberatori. Nulla che fare con tutte le gogne del mondo, perché ci sarà sempre chi grida "basta, pietà", per uno alla gogna. Quel grido rompe allora la tua solitudine, in maniera sfolgorante. Hai trovato un peccatore simile a te, o uno che capisce il tuo peccato, un fratello, dunque. Il peggio del rimorso, la sua piazzaforte, è una bianca assoluta solitudine di fronte a un riverbero implacabile che mette allo scoperto una zona di te stessa fin ad allora contraffatta, o nascosta. Dire zona è forse troppo: può trattarsi magari d'un angolo sfuggente, di un rispostiglio; ma, quantunque circoscritto, prende ora una supremazia assoluta su tutto il resto; e fa arretrare, spengere tutto il resto.

Gianna Manzini, Ritratto in piedi

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È lunghissima, in una piccola città, quell'ora equivoca fra lusco e brusco, quando le ragazze cantano per sviare la tristezza, e i bambinio strillano per richiamare l'attenzione: di tutto, fanno, per sollecitarla; e sia benvenuto anche lo scappellotto, se basta a strapparli allo sgomento della solitudine; e le signore escono frettolose, eppure agghindate, illudendosi di dover fare spese. Che effetto, le campane, a quell'ora. Fosse possibile abituarcisi. Invece, no: senti che ti vogliono strappare non si sa a che: certo a qualcosa che ti sta a cuore, che vuoi difendere, nonostante tutto; e portarti, vorrebbero, dove non saresti in grado di resistere. Anche di questo oscillare è fatto il turbamento che invade al crepuscolo. Sempre qualche donna, per lo più vestita di scuro, allungava passi verso la chiesa.

Gianna Manzini, Ritratto in piedi

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Senza dubbio, la mamma si sarebbe inquietata. Egli dovette sentire il mio timore; e, dunque, disapprovò: «Mandare in campagna, a coglier fiori, una bambina con un vestito simile... Non è anche questo un attentato alla libertà? La libertà di una bambina». Ricominciava così il duello che, ininterrottamente, anche dopo la loro morte, si rinnovava nel mio petto. E che mi ha stremata. Perché, ancora, mi cercano; ancora mi fanno oscillare fra due modi di vita, due modi di sofferenza. Lei mi ricatta col pianto; lui mi avvince con la nobiltà e col dolore. Sfuggirli proprio non si può. Dove potrebbero, altrimenti, continuare a incontrarsi? Non posso essere che io il punto di convegno, il terreno dei loro scontri. Oltre tutto, il diritto che essi hanno su di me, mi fa supporre di averli attratti e convitati da tempo immemorabile. Ma con quale cenno, da quale tenebrosa distanza? In un flusso e riflusso, in un silenzio tumultuoso, in un notturno gioco di specchi, baluginano gesti, segni, lineamenti, come sulla retina d'un immenso occhio.

Gianna Manzini, Ritratto in piedi

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Dopo il tramonto, a settembre, sono lunghissime le ore, prima che sopraggiunga il buio. Profumano più forte, i fiori: sempre così, quelli che la sera si chiudono. Eppure all'alba si riapriranno. Di tanto in tanto, la frusta moveva l'aria per allegria. La polvere della strada, ingrigiva. E un pettegolezzo, un vero battibecco, i passeri, prima di infrascarsi, un suono di minuscole nacchere senza brio. Succedette una calma innaturale, come imposta. Neppure una crespa nell'aria. Del cane che non c'era non udivo più il respiro, poco prima spinto fino all'ansimo dallo stupore delle carezee. Il babbo aveva allentato le briglie. Inerte, la frusta issata nel cannello. A sorvegliare l'imminenza d'un oscuro avvenimento aspettato col fiato mozzo, l'occhio stentava. Lunghissima pausa; e alla fine un uccello notturno, solitario, d'un grigio fangoso, esce alla nostra destra da un'alta siepe; ma con meno rumore d'un sospiro, in segreto. Ha un volo pesante, opaco. Remigano adagio le goffe ali ovattate. Con anziana sicurezza, sale bassi gradini di cielo, via via estinguendo voci e luce. Confitti nella testa massiccia, gli occhi gialli sacrificano faville, allo stesso modo che il volo tacita l'avaro e controllato sbattio delle ali. Nessun colore poteva resistere accostato all'ardente voragine di quelle iridi. La faccia appare dunque smorta, pallida, di certo devastata da quell'implacabile determinato avanzare, polverizzando gli ultimi residui del giorno. Allo scoperto, attraversando diagonalmente la strada, alzandosi di poco, ha segnato nell'aria una bruna traccia ondulata come una serranda. È scomparso. Ed è stato come chiudere un cancello.

Gianna Manzini, Ritratto in piedi

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Che cos'è quest'ovattato rombo negli orecchi? Il sangue o un'eco lontanissima di passi cadenzati? Impercettibile, un'onda di canti vaga sulla mia testa. Più vicino, m'incanta un fruscìo, quasi di pettine in un'immensa elettrica capigliatura: vi serpeggia un suono come di querula cartavelina, su un fremito di foglie; chiocciola, monotona, una goccia in una conca, accordandosi col tonfo di frutti maturi su morbide zolle; e quasi luccica un tintinnìo di bicchieri alzati. Ma plana su tutto, rèmiga, quel canto antico. Anelito, più che canto, o invocazione imperiosa, si mischia davvero al rombo del sangue e ad una cadenza di passi. Così facile, dunque, l'alleanza che i vivi chiedono ai morti? La volta del cielo è talmente capace. E il tempo è nulla. Ma diventa un assedio, una congiura, questo strano e pur naturale concerto di suoni interrotti, di voci strascicate, di eterne cadenze, di sussurri impediti. E battiti, battiti. Che folla, che ressa, per diradare nebbie intorno a un ricordo. Lo sollecitano, lo spremono come il seme dal guscio. Infine ne esce intatto, rimesso a nuovo. Risfolgora. Figure da prima piccolissime, si sciolgono, prendono corpo, raggiungono la loro effettiva misura. Liberate poi dall'iridiscenza che le confinava nella favola, diventano reali, riconoscibili.

Gianna Manzini, Ritratto in piedi

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Ma lei scatta: «State sparando con un cannone su un passerottino». Questo m'indigna; m'arruffa tutta. Passerottino a me? Per difendermi, mi ha umiliata. L'umiliazione... l'umiliazione...: come ha detto il babbo? Toglie l'altezza. Infatti mi ha ridotta a uno squallido passero. E invece, no: saprò rivalermi, io.

Gianna Manzini, Ritratto in piedi

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Esitai. Mi tirai un poco su, come per un colpo leggero alle reni, appena barcollando. Di molte piante, lui avrebbe saputo il nome; e non gli sarebbe piaciuto che si dicesse "erbacce". "Erbacce, perché non servono a te? Perché non ti piacciono? Perché t'intralciano?" Sicuro, che me lo sussurrava all'orecchio. Ma io non potevo fare diversamente. Almeno ripulire, diamine. Alcune si raggruppavano in una famiglia ispida: sdegno o difesa, sembravano costringerle a una vicinanza serrata. Conro quelle mi accanivo, scalzando intorno con le dita, e piegandomi tutta da un fianco, dato che si trovavano in fondo, dal lato opposto della lapide. E lui, il babbo, amorosamente contrastandomi: "Erbacce perché non rientrano in un certo schema?" Forse mi burlava; e questo avrebbe potuto offendermi; ma sentivo d'aver tutti dalla mia, specie la mamma ("Un orrore, una vergogna. Simile invasione di erbacce ti accusa") sì che insistevo fra gramigne e gambi fibrosi con foglie lanceolate e bizzarre. Di una vidi il fiore o il frutto che fosse, non so: una nappina compatta, color bronzo. Non la risparmiai. Più basso, più penetrante, e tuttavia appena ironico, lui: "Erbacce perché l'uso vuole che si distruggano? Nascono condannate, le erbacce". Ero soltanto in grado di ascoltare. Trattenuta ogni fibra entro un fermo tessuto di rispetto e di timore, sussistevo in un'inerzia fragile. "Perché ti umilia quest'eccesso gratuito di impulso vitale?" Gratuito: voleva alludere al fatto che, fra gente meschina come "noi", è apprezzabile soltanto ciò che costa? Insisteva dolcemente: "Esuberanza povera povera". (Qui la voce si faceva struggente: appena il soffio di un caldo festeggiare, proteggendo.) "Povera: e per ciò, vedu, com'è pietoso questo far gruppo, questo avvincere..." Ma di che cosa mi parlava, dunque? Dove sconfinava il suo sussurro? Infine, una segreta, fioca esclamazione: "È vita, Gianna; è vita!"

Gianna Manzini, Ritratto in piedi

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Leggere e sentire il gusto delle finferle in bocca

Leggere Ritratto in piedi di Gianna Manzini è un'esperienza bellissima. È una di quelle letture durante le quali mi sento obbligato a fermarmi e a cercare di far durare il gusto delle parole in bocca il più a lungo possibile, come uno squisito piatto di finferle che non si vorrebbe mai terminare. Come se la calibrata e allo stesso tempo sofferta precisione nella scelta delle parole non fosse abbastanza, mi ritrovo spesso a leggere pagine che traducono sfumature profondissime di me: non avrei potuto scegliere momento migliore per leggere questo libro che mi segue da dieci anni ormai.

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Batte, gratta, saggia il mio zoccolo di cavallo. Scruta, il mio occhio. Fosse ricco come il suo, con quegli angoli avventurosi, sfuggentissimi, che prendono e portano il raggio chi sa dove, e captano agevolmente di lato; sì che ogni sorpresa è possinile; tanto vero che hanno bisogno d'essere difesi da uno scherno, a guida dello sguardo. Al paragone la mia palpebra è timorosa, vigliacca: chiude e rifiuta. Chi me la dà, dove la trovo quella soprannaturale possibilità di accogliere bagliori? Eppure di bagliori ho bisogno, dato che di continuo mi si spezza il filo della storia. In me, il baleno (e devo considerarlo un regalo) somiglia una fulminea follia: passa quasi senza che io ci abbia creduto. È passato, e già ne dubito; se pure me ne ricordo. In quel cavallo, invece, che pieno, esteso approvvigionamento di verità fulgenti, magari tremende, che rifrazioni rivelatrici e favolose insieme, fra tante incredibili sfaccettature.

Gianna Manzini, Ritratto in piedi

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Home is where your feet are.

Stasera, sorprendentemente, invidio molto tante persone che ho a lungo disprezzato: quelli che non conoscono la geografia. Perché stasera come non mai vorrei poter guardare un planisfero e vedere solo la realtà, e cioè un continuum di terra, acqua e fuoco senza nomi e senza linee immaginarie a dividerlo. Vorrei guardare quella zona che chiamano «bacino del Mediterraneo» e ammirare le forme della costa, i golfi, le insenature e i promontori senza che i nomi e le costruzioni storiche li precedano.

Alla fine erano proprio loro ad aver ragione e ad essersi lasciati la possibilità di guardare al mondo per l'unica cosa che è davvero.

Grazie Shlomo Sand per aver distrutto uno dei residui miti infantili che mi restavano ancorati nel profondo: traballava da tempo come un dente da latte in terza elementare, c'era davvero bisogno di accopparlo senza pietà?

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