Avatar

YOMER

@yomersapiens / yomersapiens.tumblr.com

Boh alla fine sta tutto sul mio sito yomer.it
Faccio musica, scrivo storie, ho un podcast chiamato Diari dell’orso, sono eccessivamente attratto dai piccioni, in genere quando mi annoio dico stronzate e io mi annoio molto.

C'erano un po' di cose da fare, dovevo finire per poi permettermi di iniziare di nuovo da capo ed è successo pure altro e allora mi sono preso del tempo e sono stato un po' via da qua.

Ho scritto un libro. Lo avrò tra le mani il 16 ottobre. Qua potete trovare i primi due capitoli, se non li avete ancora letti. Poi non so cosa accadrà, cioè sicuro dovrò andare in giro a promuoverlo e venderlo perché non ho un soldo e non mi vergogno di implorare ogni singola persona e dire "per favore compralo ho fame ti prego dai accetto pure monetine o tozzi di pane".

Per aggiornamenti e date sono un poco più attivo su instagram, qua è ancora riservato alle profondità delle tristezze.

Per il resto, sono felice.

(La bellissima illustrazione degli gnomi l'ha fatta una persona speciale con uno strano odore.)

Poco fa ero in riva al mare a pochi metri dalla casa del nonno. Vicino ai bidoni dell'immondizia c'era una numerosa famiglia di gatti, alcuni piccolissimi, altri già segnati dalle lotte a cui mancavano pezzi di orecchie o interi occhi, tutti accomunati dalla passione per il sole e i rifiuti commestibili. Mi sono avvicinato nonostante il forte odore di pipì felina, perché erano belli da morire e non mi importava del rifiuto, volevo solo adorarli, studiarne le abitudini, fare tutto in silenzio. Il conflitto con il mio corpo e con l'invecchiamento lo sto affrontando in terapia. Ci sono parti del mio volto che non riconosco più, ma ci vedo mio padre. Non è un volto estraneo quindi, è solo un volto che sono stato abituato a vedere su di un'altra persona. Ho le sembianze di mio padre ma non sono padre e mi va bene così. Qualcuno mi ha detto "trust the process" e io non è che non mi fido, è che non so dove stia andando a parare 'sto processo. Prima diventerò mio padre e poi mio nonno temo, cosa non orribile dato che il nonno vive a pochi metri dal mare e potrebbe (se solo lo volesse) andare a osservare questa famigliola di gatti tutti i giorni. Si è sbloccato non so cosa nel mio modo di percepire l'altro sesso e i giovani in generale. Sono in giro, spesso nei locali, a lavorare o a bere, e vedo persone molto attraenti. Vedo ragazze bellissime che fino a qualche anno fa mi avrebbero fatto venire voglia di avvicinarmi, attaccare bottone e anche se non si concludeva era lo stesso, almeno avevo scambiato due parole. Ora mi sembra di vedere tantissimi bambini che hanno scoperto i trucchi della mamma e si riempiono il volto di fondotinta, il rossetto sbavato, eyeliner colante, indossano scarpe di qualche taglia più grande e ci provano un sacco a sembrare adulti e anche se so che sanno parlare, mi fa strano perché non sarebbe la mia stessa lingua. Finalmente questo momento è arrivato. Mi vedo per quello che sono, per l'età che ho, e il bisogno di attirare è passato. Cioè, non del tutto, vorrei funzionasse ancora ma solo per i gatti randagi. Vorrei essere il signore dei gatti che quando scende in spiaggia viene assalito da amore e fusa e forte odore di pipì felina. Forse dovrei andare in giro con scatolette di cibo, ecco. O dormirci dentro. O offrirmi io come sacrificio e farmi divorare dai randagi e diventare ossa in spiaggia, nascoste sotto la sabbia, insieme agli avanzi dei falò e alle conchiglie.

sono diventato quel vecchio rompicoglioni che ascolta le compilation dei giovani rap contemporanei e gli corregge i congiuntivi.

Phil mi raggiunge alla fermata del bus. Ci eravamo salutati poco prima e non pensavo ci saremmo rivisti ma ha ricevuto una telefonata inaspettata dalla compagna. "Nicholas vuole le fragole". Dove le trova un padre di famiglia delle fragole fresche di notte? Anche se viviamo in una grande capitale Europea non è una missione facile ma ora siamo insieme e la sua missione diventa la mia missione. Entriamo in tutte le birrerie. Nei pub. Nei ristoranti. Nei locali da cocktail. Roviniamo la serata alle coppiette. "Avete delle fragole? Sono per suo figlio!" dico sentendomi parte della sua famiglia. Che la paternità sia davvero questo? Accontentare richieste assurde e tornare a casa a mani vuote, probabilmente dovendo implorare perdono inventando scuse? Non so come sarebbe la mia vita se ricevessi chiamate da Ernesto che mi dice di avere oglie particolari. Però Ernesto è un gatto, che voglie potrà mai avere: più crocchette, più pesce e distruggere l'umanità. Queste le voglie principali di ogni felino. Phil ha smesso di bere sette anni fa e da allora lo vedi solo con svariati cappuccini in mano. Anche di notte. Io lo seguo e lui è carico di caffeina. I suoi occhi sono palline di un flipper alla ricerca del frutto impossibile. Troviamo una pasticceria aperta, non so come mai, non so perché ma hanno avanzato un pezzo di torta alle fragole ricoperto di gelatina. Phil lo compra e poi ci mettiamo in un parco poco distante e lo vedo scavare con le mani per liberare le fragole dalla gelatina, riporle accuratamente in un tovagliolo, pulirle e prepararle per Nicholas. Io suo figlio l'ho conosciuto, non mi sembra un essere così pericoloso, un mostro che se non viene accontentato si trasforma e uccide l'umanità (peggio dei felini). Credo che sia qualcosa che ha a che fare con il passato di Phil, qualcosa che deve farsi perdonare per gli anni di alcolismo. O forse vuole solo rendere felice il piccolo. L'ho sempre visto come un tipo strano a Phil ma da stanotte lo vedo come un padre. Un padre strano certamente, ma pur sempre un padre.

Spesso cammino per strada guardando verso l’alto e osservando i palazzi e il loro evolversi. Quando un palazzo che mi piace finisce ricoperto da impalcature, per rimetterlo apposto o ristrutturarlo, lo vedo un po’ come del tempo che decide di dedicarsi al prendersi cura di sé. Una spa. Un ritiro spirituale. Mi piace tornare e guardare il proseguire dei lavori (sto invecchiando precipitosamente).

Per quanto ancora il mio caro amico palazzo si farà sistemare? È un po’ simile a me che torno in terapia forse. O forse è l’equivalente del volare in Turchia per farsi ridisporre i capelli nelle zone mancanti (quando dico che sto invecchiando è anche dovuto al fatto che una volta nelle pubblicità mi suggerivano hot single girls around me invece adesso promuovono viaggi a poco per salvare il salvabile).

Passano i mesi e poi le impalcature vengono rimosse. Il palazzo torna a essere se stesso, libero, una nuova versione di sé così simile alla vecchia. Magari una versione migliorata, che ha superato determinati traumi, che ha dato una rinfrescata al colore e una ringiovanita alla copertura isolante.

Però io, misero umano alto molto meno di un suo piano, guardo e non è che ci vedo chissà che cosa. Ok, mi pare che le tue mura ora siano un pelo più pulite, qualche pomello è stato lucidato e la facciata dimostra un paio di anni in meno. Ma davvero, tutto sto casino, tutti sti mesi di lavori e impalcature per questo risultato?

Ho paura di pensare lo stesso di me tra un po’, quando la dieta e la terapia e lo sport e il prendersi cura di sé dovranno aver dato i loro frutti e invece niente, ma io lo dico sempre che se non rovino le cose non sono felice.

Ogni tanto capita che delle storie mi rimangano incastrate in testa finché non trovo il tempo per scriverle. Sto provando a cambiare il mio approccio alla scrittura. Più diretta. Meno costruita. Essenziale. La forma del diario, quella che ho utilizzato per anni, mi inizia a stare stretta o forse non ho voglia di trovare la morale in ogni periodo storico della mia esistenza dove sto da cani. Specialmente ora che pago lautamente qualcuno per ascoltarmi. Ero in enoteca, non ricordo come ci ero finito, ricordo solo che il locale pullulava di vecchi austriaci, anziani che si ritrovano con il comune interesse della sbronza. Le enoteche a Vienna sono diverse da quelle in Italia perché c'è molto silenzio. I commensali parlano ma non alzano mai la voce, c'è quasi una innaturale calma che l'alcol dovrebbe compromettere ma non lo fa. Si apre la porta ed entra una anziana coppia. Lui è vestito bene, un distinto signore e lei è sulla sedia a rotelle e ha lo stesso sorriso che aveva mia nonna prima di diventare un guscio di essere umano, quando la malattia era appena all'inizio. I suoi occhi brillavano di gioia mentre veniva spinta nel locale. Lui sposta una sedia con le gambe da un tavolo per avvicinare la sedia a rotelle, controlla che i piedi abbiano abbastanza spazio, la aiuta a togliere la giacca, poi le si siede davanti e le afferra la mano. Lei non ha mai smesso di sorridere, si guardava attorno e tutto era nuovo, una sorpresa. I capelli argento erano soffici e la pelle chiara a tal punto da notare le vene sottostanti. Ho incominciato a sovrapporre i ricordi. In questa anziana ho visto mia nonna e mi sono messo a piangere. Lui ordina da bere, due bicchieri di vino bianco. Quando vengono poggiati sul tavolo la aiuta a sollevare il suo per fare un brindisi, poi continua nel farle vedere come si avvicina il bicchiere alla bocca. Lei riesce a fare un piccolo sorso, manda giù e torna a sorridere. Lui le prende di nuovo la mano e non dice niente. La guarda negli occhi, quegli occhi pieni di vita e cancellati di ricordi di cosa hanno vissuto assieme. Gli stessi occhi che aveva mia nonna quando è diventata bambina. Che strano pensare a questo, che certe volte abbiamo la fortuna di vedere i nostri anziani tornare a essere bambini. Chissà se coincidono le esistenze e davvero erano così. Mi sono dovuto nascondere perché non facevo altro che piangere e disturbavo il silenzio del locale. Questa scena, ho pensato, quanto sarebbe stato bello veder fare così anche a mio nonno, che non ama uscire di casa e che ha sempre detto che sul terrazzo ha tutto quello di cui ha bisogno. Sapere che in quel periodo doloroso la portava in giro e le faceva rivivere banali esperienze, per lei sempre nuove. Un aperitivo con Alzheimer come ospite a sorpresa. Non so cosa mi abbia trattenuto dall'andare ad abbracciarla e stringerla forte. Avessi bevuto un paio di bicchieri in più sicuramente l'avrei fatto. Scrivo per non dimenticare perché ho il terrore di perdere pezzi della mia memoria e di non sapere più chi sono le persone che sogno, cosa vogliono dire i disegni che ho sulla mia pelle, i testi delle canzoni, le poesie. Anche se, forse, rivivere tutto da capo perché qualcosa sta facendo tabula rasa, tornare a dare il primo bacio ogni giorno a qualcuno che mi ama alla follia e mi porta fuori a fare aperitivo mentre sono comodamente seduto nel mio pannolone a rotelle, non è così spaventoso. Fa solo male, male a pensarci.

Sul bus di ritorno verso casa sento voci di italiani provenire dal fondo, sono una coppia, è principalmente lei quella attiva nella comunicazione e sta elencando tutti i posti che le piacerebbe visitare, dice Barcellona, dice Parigi, dice il Giappone. Non mi piace incontrare italiani da quando vivo a Vienna ma talvolta capita di beccare qualcosa, un dialetto, una cadenza, che cattura la mia attenzione e mi fa sentire a mio agio. Scendiamo dal bus insieme e sono costretto a seguirli perché vanno nella mia stessa direzione. A questo punto mi interessa, voglio sentire. Lei è stanca del silenzio di lui, della mancanza di partecipazione e sbotta: “Eh vedi, tu non dici mai niente, fai solo parlare a me!”. Lui sospira, emette un lamento e un “Ma che devo dire…” con un filo di voce. Lei riparte alla carica piena di energia: “Boh, dici qualcosa, dimmi cosa ti piacerebbe vedere!” e in quel momento qualcosa si impossessa di lui, un lampo vitale, si volta e urla: “A FESS’ E SORETA!!!”. Io scoppio a ridere, accelero e gli stringo la mano, mi complimento, mai in dodici anni di vita a Vienna mi sarei aspettato di sentire il napoletano sotto casa ed è per questo che noi italiani siamo il popolo migliore del pianeta e ci meritiamo di conquistare ogni quartiere e non accetto opinioni diverse.

Di recente ho fatto delle analisi del sangue, giusto per controllare che il disfacimento totale prosegua alla giusta velocità, senza accelerazioni. Le mie analisi del sangue mi ricordano molto quel film di Al Gore di inizio anni 2000, quando parlava della catastrofe che avrebbe stravolto il pianeta ma noi l’abbiamo guardato pensando fosse fantascienza e più di vent’anni dopo viene da dire “Ah cazzo, ma si poteva fare qualcosa allora!”. Da un certo punto di vista sì ma non guardate me, io in generale non ho voglia di fare un cazzo, figuriamoci salvare un pianeta. Di simile le mie analisi hanno la parte finale. Aspetto il giorno in cui le guarderò ed esclamerò sorpreso “Ah cazzo, ma si poteva fare qualcosa allora!” e invece sarà troppo tardi e tirerò i remi in barca e via verso l’inevitabile. Quello che è emerso dalle analisi è che ho il colesterolo alto. Io. A parte che oramai controllo tutto quello che ingerisco (falso, mi do arie da uno che controlla tutto e basta) e questo ha portato alla luce un grande problema: non ho idea di cosa sia il colesterolo. Cioè ma devo davvero mettermi a imparare un’altra roba che mi potrebbe fare del male? Con che voglia? Armato di questi risultati sono andato a parlare con gli amici. Quando ho una novità in genere ne parlo con un po’ di persone, giusto per capire se anche gli altri sono vittime del mio stesso atroce destino. Così entro nell’osteria del mio amico che ogni anno metto nella mia lista totomorti (lui lo sa e condivide, date le sue abitudine ludiche e alimentari, droga e alcol, si domanda spesso come sia possibile arrivare al panettone ogni anno) ed esclamo in una sala gremita di conoscenze decennali “Mi devo dare un contegno! Ho fatto le analisi del sangue e ho il colesterolo alto!”. Nessuno mi ha cagato più di tanto, solo un paio di persone si sono prima confrontate e poi mi hanno chiesto all’unisono: “Scusa, ma perché tu fai le analisi del sangue?”. Non c’era malizia in questa domanda. Si tratta di personalità da bar, che diluiscono ogni giornata in litri di vino, che se c’è un problema non lo affrontano, lo ignorano, sperando vada via o che li uccida senza fare troppo rumore. Un po’ come abbiamo fatto con il film di Al Gore. Me lo sono domandato sul serio. Ma perché faccio le analisi del sangue? A che proposito? Per eliminare ancora qualcosa? Per togliermi un altro svago durante la giornata? Così ho iniziato a guardarmi attorno e ho notato chi si lascia andare. Ho notato i loro nasi rossi e le mani gonfie e i ventri esplosi. Ho notato e non mi hanno fatto né caldo né freddo. E se per una volta, anche io mi lasciassi andare? Cioè che male può fare. Vivere ogni giorno ubriaco. Abbandonare le cintura e osservare i pantaloni stare su da soli. Eviterei di guardare nello specchio. Forse dormirei la notte. Eviterei di andare dalla psicologa. Eviterei di preoccuparmi del futuro perché tanto sarebbe già segnato. Metterei il mio stesso nome sulla lista del totomorti sotto a quello del mio migliore amico e via. Invece non lo faccio perché sono un cazzo di codardo e voglio allungare un po’ l’esistenza senza alcun motivo. Forse per dare lavoro alle signore che fanno le analisi del sangue. Quella dannata sottospecie di infermiera mi ha devastato il braccio l’ultima volta. Tolgo lo zucchero. Il pane e la pasta. I dolci e i carboidrati e il sesso e i baci. Tolgo tutto per ripartire da zero e spero che le mie prossime analisi siano così limpide da far esclamare al dottore che posso tornare a godermi la vita e offre lui droga e alcol.

Voglio scrivere una storia d’amore ambientata nel mondo del calcio. C’è questo arbitro che è molto bravo nel suo mestiere. Cerca sempre di essere il più corretto possibile ed è inflessibile e le sue decisioni vengono rispettate. Si è costruito una fama durante gli anni per il suo sguardo attento e la capacità di comprendere ogni situazione in pochissimi istanti. Durante una partita succede che un promettente giovane attaccante di una squadra in lizza per il primo posto subisca un fallo molto grave, però questa volta l’arbitro non è convinto subito. Non è riuscito a guardare con precisione cosa è accaduto, era distratto, dalla bellezza del giovane attaccante. Gli si avvicina e gli chiede se si sia fatto male. Il giovane si contorce per terra e i suoi occhi sembrano sinceri, è prossimo alle lacrime. L’arbitro dice “Non stai fingendo, vero?”. Il giovane dice di no. “Mi sono fatto male sul serio. Forse si è rotto qualcosa”. L’arbitro decide di credere a quegli occhi così espressivi. La sua mano si ferma sul polso del giovane, lo stringe. Gli sussurra “Voglio crederti” e concede un calcio di rigore importantissimo alla sua squadra. Tra le urla di dissenso dello stadio il giovane attaccante viene portato fuori in barella. La partita si conclude con la vittoria della sua squadra proprio grazie a quel calcio di rigore. L’arbitro rimane ossessionato da quello sguardo, da quel frangente in cui i due si sono sfiorati, dalla voce sincera del giovane talento. Decide di fare qualcosa di non professionale, ma deve capire se anche il giovane ha sentito la stessa scintilla. Deve averla sentita, si ripete. Si apposta in macchina sotto casa del talento e aspetta. Passano ore, l’arbitro si spazientisce, ma poi lo vede arrivare. Sono passati pochi giorni dalla partita, chissà cosa gli è stato diagnosticato, forse una rottura o una lacerazione di un tendine. Invece il giovane arriva camminando senza nessun problema, anzi, saltella dalla felicità. L’arbitro si sente tradito, esce dalla macchina urlando “Tu mi hai mentito! Volevi solo un rigore!!!” il giovane non capisce, si sente messo alle strette, non sa come difendersi e decide di fare l’unica cosa sensata in quel momento. Afferra la testa dell’arbitro e lo bacia. L’arbitro si calma, smette di parlare. Il giovane non lo molla, il bacio è sincero tanto quanto i suoi occhi. “È vero, non mi sono fatto male come pensavo, ma quello che provo per te, potrebbe farci molto più male…” l’arbitro non sa cosa dire. Allora anche lui non è riuscito a smettere di pensare a quel momento! Ma può credergli? Potrà mai davvero fidarsi di un calciatore, o questo amore è maledetto e sarà sempre condizionato dal dubbio? Si pone tutte queste domande. L’istinto cerca di metterlo in guardia per prevenire ogni errore, ma il suo corpo vuole solo lasciarsi andare e fidarsi. Guarda il giovane talento e dice “Andiamo via da qui, non ci possono vedere insieme”. Poi insomma non so quello che sarà ma mi piacerebbe parlare degli spogliatoi e farne un film dove si capisce quanto ogni sport sarebbe più interessante se la gente la smettesse di competere e ci si desse più bacini.

Zona Zero Zucchero

Aver tolto lo zucchero non mi ha reso una persona migliore. Avevo grandi aspettative. Davvero ero convinto che in brevissimo tempo la mia vita sarebbe stata rivoluzionata. Invece ho solo fermato una dipendenza, la più accesa diciamo. Ora però ho adottato un atteggiamento giudicante verso gli altri, un po’ come avevo fatto quando avevo smesso di mangiare carne. Mi sento migliore. Dall’alto di cosa poi non mi è chiaro, odio le competizioni eppure mi ritrovo a dare consigli su come potenziare la propria esistenza cambiando la colazione.

Sono un campione di incoerenza capace di saltare al comando quando compie un piccolo passo in avanti. Ieri ho cercato di convincere mio padre a cambiare le sue abitudini dopo settant’anni di vita sul pianeta, dicendo che tutto quel pane e quella marmellata gli fanno male e che oramai è diventato così soffice e morbido da assomigliare a me, che si è lasciato andare.

Io non dovrei dispensare consigli. Dovrei fare le mie cose e non venire interpellato. Però quando scopro qualcosa di nuovo ho bisogno di condividerlo e se vedo in mio padre la mia stessa pancetta mi sento in dovere di pensare che sia problematica anche per lui senza capire che lui può fare quello che vuole e mangiare quanta marmellata gli pare.

A me stanno sul cazzo i sanissimi. Quelli che fanno sport. Quelli che fanno le gare. Quelli con le scarpetta da arrampicata. Quelli che hanno i vestiti tecnici e li indossano in ogni occasione per farti vedere che loro fanno sport, che i loro muscoli sono attivi. Che puzzano di sudore o di deodorante che copre il sudore. Quelli con il telefono intasato da foto davanti allo specchio in palestra. Con slogan ovunque nei loro profili e nei loro video. Viene demonizzata la comfort zone. È il male e bisogna uscirne perché la vita inizia non appena abbandoni i tuoi comfort. Odio queste persone e odio anche me per aver tolto lo zucchero e aver provato a migliorare. O forse cambiare.

Che c’è di male nel tergiversare e onorare sempre le medesime abitudini? Mio padre può fare colazione oggi uguale a come quando era un bambino e stessa cosa io. Non fosse che, un po’, ogni tanto, magari, si può variare. Si può non mangiare biscotti mulino bianco. Si può non spalmare una crema cioccolatosa. Si può (e qui lo dico sentendomi male) (ho già dei conati) mangiare un’insalata. Ok l’ho detto.

Io non voglio vivere per sempre. Nemmeno più a lungo. Io so che in famiglia moriamo giovani lamentandoci tantissimo. È così, siamo stelle filanti e urlanti che bruciano diffondendo quanto tutto ci faccia schifo. Ogni giorno diventa un’agonia. Ogni cambio governo. Ogni stagione. Ogni moda. Ma se c’è una cosa che odio sono le dipendenze. Odio ammettere di avere qualcosa a cui non riesco a rinunciare. Sia il sesso, lo zucchero, le carte Pokémon, l’alcol, le persone, gli affetti, i biscotti, la sicurezza in sé che deriva dal numero di like ricevuti online. Odio sapere di dipendere da queste cose. Per questo forse allontano la dolcezza, per non sentirmi debole. Perduto. Ed è un conflitto costante.

Non sono diventato una persona migliore da quando ho tolto lo zucchero. Ho solo più energia che sto destinando nel ripulire tutto quello che si era calcificato in altre zone, soprattutto nella testa. Odio dipendere dal cellulare. Odio dipendere però ho capito una cosa. Non devo togliere tutte queste dipendenze per sentirmi migliore, ma per tornare ad accettare la mia vulnerabilità. Le mie imperfezioni. Concedermi di fare schifo e sbagliare. Perdonarmi, perché non posso essere sempre geniale e produttivo e quando mi perdonerò sarà come farmi un regalo. Come andare al bar e bere un caffè senza metterci lo zucchero (cioè capito che sfigato mi vanto di ste cose) e poi guardare la vetrina dei dolci e non vietarmelo, sceglierne uno piccino e quello sarà un premio. Ma dovrà essere meritato.

Ecco, credo di voler tornare a sentirmi di meritare le cose. Solo quelle belle però, perché tanto quelle brutte so di meritarmele sempre. Quante cose brutte mi merito ancora, quante ho cercato di espiarle senza riuscirci. Però è più facile accettare le cose brutte. Inarchi le spalle ed esclami “Eh sì, in effetti me lo merito”. Le cose belle invece si fa una fatica assurda. Sembrano quasi una candid camera con qualcuno pronto a burlarsi di te dietro l’angolo.

Che bello, quanto materiale per le mie prossime sessioni dalla psicologa! Sono sicuro che non si annoierà neanche un secondo.

I gatti lo sentono. Non tutte le sere ma, diciamo, una sera su tre, Ernesto si stende vicino a me sul divano. C’è un trucco per far accadere questo fenomeno: posizionarsi in diagonale e inarcare il braccio e renderlo accogliente come un arcipelago ben riparato. Ernesto arriva e ci si piazza sopra con tutto il suo pelo e la sua ciccia. Si accascia precisamente sull’avambraccio destro, impedendomi di muovere anche le dita. Sente che devo staccare dal telefono, per questo lo fa. In quei minuti (che diventano ore) lui mi sta dicendo di lasciar perdere, di non scrivere a nessuno, di non guardare video idioti e tutti uguali di ragazze che mi offrono il loro corpo online (sì, sono fatto così, appaiono video di ragazze seminude che fanno le mossette e mi convinco siano indirizzati specificatamente a me per non so, vendermi qualcosa, convincermi a votare un determinato partito o boh, rendermi conto della mia età e accettare che non sarò mai più così bello e liscio e capace di vestire qualunque cosa in maniera graziosa, così mi arrabbio, bestemmio l’algoritmo che vuole schiavizzarmi e scaglierei il telefono dall’altra parte della stanza non ci fosse Ernesto a bloccarmi). Posso usare solo la mano sinistra e le opzioni sono limitate. Devo riuscire a raggiungere il telecomando senza svegliarlo, così da poter accedere a qualche film. Di recente ho cambiato abitudini. Non solo ho praticamente rivoluzionato la colazione, dopo quarant’anni di biscotti e crema cioccolato e nocciola spalmata su pane sono passato a muesli, noci, datteri e yogurt di avena senza zucchero, ma ho pure smesso di guardare serie tv. Non ce la facevo più, troppe dipendenze, troppi zuccheri e personaggi. Troppe puntate e stagioni e storie che si ripetono e non finiscono mai. Avevo bisogno di qualcosa che inizia e si conclude. Così sono tornato a guardare film e ne sto selezionando praticamente uno a sera, sia per permettere a Ernesto di dormirmi addosso, sia per tornare a dare valore alla fine delle cose. Non accettiamo più che qualcosa possa concludersi. Finisce una storia e vogliamo un seguito. Finisce un racconto e andiamo a pescare un personaggio minore che si vedeva solo in uno sfondo per un frangente e decidiamo di dedicargli una miniserie con qualche attore famoso. Io mi faccio troppi scenari in testa. Ho bisogno di tornare ad accettare la fine. Il giorno che non ci saranno più parole nei discorsi, che non mi appariranno più ragazze seminude provocanti o video demenziali di riflessioni politiche o notizie o aggiornamenti. Ernesto mi sta insegnando questo, a stare fermo e aspettare che le cose si concludano senza intervenire, perché tanto che posso fare? Al massimo salutare. O scegliere di non essere più attivamente coinvolto in questa fase terminale della società dando però la colpa al gatto. Mica posso cingermi di chissà quale merito e propormi come raffinato pensatore, eh no, io do la colpa a Ernesto, vogliate scusarmi, si è fatto tardi, mi ritiro nei miei pensieri, se non rispondo più è perché sta dormendo sopra di me e mica lo posso svegliare.

Devo essere molto orgoglioso di me stesso per esserci riuscito. Finalmente, nonostante tutti mi avessero detto fosse impossibile e contronatura, sono cresciuto e ho cambiato colore degli occhi. È successo di recente, andando contro tutte le regole dell’invecchiamento perché, da che mondo è mondo, più vai avanti con gli anni e più ti restringi e rinsecchisci. Io invece ho fatto di meglio. Da giovane ero un metro e settantotto, se stavo ben dritto un metro e settantanove, ma adesso sono diventato un metro e ottanta. Quel centimetro mancante mi aveva sempre infastidito, soprattutto dopo essermi trasferito a Vienna dove tuttə sono altissimi. Non raggiungere l’ottanta mi faceva sentire un essere minuscolo, invisibile. Invece ora tutto è cambiato! Stessa cosa con il colore degli occhi. Sono una di quelle persone dotate di occhi cangianti che cambiano pigmentazione in base all’umore, alla luce, alle stelle in cielo e al governo eletto. Sono sempre stati di un delicato marrone tendente al verde acquatico. Il tipico stagno pieno di melma e alghe da cui originano gli orchi. Ma adesso sono diventati ufficialmente verdi! Mi sono liberato del fango. Ho bonificato i miei occhi e innalzato la mia statura senza bisogno di alcun tipo di intervento chirurgico o preghiera miracolosa. Come ci sono riuscito? Semplicemente ho leggermente modificato la realtà ora che ho rifatto il passaporto. Sul nuovo documento sono un centimetro più alto e con occhi più rari e preziosi. Il tutto senza faticare. Ho sorriso alla signora addetta ai lavori ed era fatto. Ora, per i prossimi dieci anni, sulla carta sono una versione di me stesso migliorata. Non in foto. In foto si vede che faccio schifo e che sto decadendo senza ritegno ma da qualche parte, in un cassetto smarrito in casa, c’è un documento che contiene una vecchia versione di me, meno gradevole e va bene così. Forse il prossimo passo potrebbe essere arrestare l’avanzamento della calvizie con un semplice stratagemma. Colore capelli: moltissimi, foltissimi e robustissimi. E via, dieci anni di tranquillità e menzogne.

Lo zucchero a velo da naso e le sue conseguenze

Le notti sono più buie del solito e siamo onesti, non faccio altro che aspettare che il sole tramonti per potermi nascondere nel buio dell'inverno, al riparo, nella totale assenza di luce tipica del clima viennese. È una conseguenza della condizione dei miei occhi, l'ho detto ieri alla nuova psicologa. Mi nascondo nell'oscurità perché la luce rovina la realtà, facendomi vedere quanto tutto sia compromesso. Poi modifico la realtà con idee stupide, disegni nel cranio, che mi aiutano a sopportare tutto e faccio lo stesso con le parole, quando racconto come sto, quando faccio battute, quando mi dipingo come una persona forte, solitaria, sicura di sé. È tutto un nascondersi e modificare. Evitare di confrontarsi con la "vera" realtà. Quello che davvero penso di me e le versioni di me che detengono le altre persone e che sono tutte modificate per non poter essere ricondotte a ciò che giace sotto le coperte e che non ha voglia di parlare con nessuno, o di farsi conoscere.

Le ho detto che mi manca scrivere e che sto cercando di non farlo perché ho paura di fare male, non solo a me stesso, ma anche al buio.

Delle volte, tipo oggi, vorrei essere come il francese che becco al bar una volta ogni due giorni e che si siede vicino a me e prova a parlarmi ma non capisco niente. Lui arriva presto e ordina sempre una birra media. Oggi gli ho chiesto se questa fosse la sua colazione e lui ha detto di sì. O credo fosse un sì, chi cazzo li capisce i francesi quando parlano. Lavora tutta la notte, sta in piedi su impalcature a non so quanti metri da terra a montare enormi cartelloni pubblicitari o segnaletiche, sfidando il vento incontrollabile di queste zone. Avrà una cinquantina di anni portati decentemente, se calcoliamo le birre a colazione e il costante consumo di cocaina nel bagno del bar. Io lo so che non ha la vescica debole come me. So cosa va a fare.

Vorrei essere come lui perché delle volte, tipo oggi, iniziare a bere di prima mattina sembra davvero l'unica soluzione e invece cosa faccio? Tolgo lo zucchero dalla colazione per provare a essere più sano. Ma sarò demente. Davvero sono arrivato a quel punto della vita dove provo a migliorare? A questa età? In questa economia? Con questo governo? A chi cavolo verrebbe voglia di provare a fare meglio? Solo a un idiota.

Ed ecco che allora tolgo lo zucchero. Annuso la birra del francese. Torno in terapia per parlare di quello che pensavo d'aver risolto e che invece non era risolto manco per un cazzo. Questi anni di attesa però, tra un percorso e l'altro, mi sono serviti per identificare il vero nemico. Non è il governo o l'economia mondiale purtroppo. Nemmeno lo zucchero o il francese con il suo zucchero a velo da naso. Il problema sono tutte le versioni di me che tengo in piedi con immenso dispendio di energie per evitare di svegliare quella che vive nel buio e vorrebbe solo dormire per sempre. Quella più debole e che ho cercato di proteggere da tutto, rendendola piatta e inerme come un materasso e a cui concedo di fare innumerevoli schizzi per rallegrarsi.

Siamo sempre troppo duri con noi stessi e per fortuna io ho una dozzina di versioni diverse di me stesso qua dentro e almeno sette fanno un buon lavoro e le sostengo, sono le restanti cinque che insomma, potrebbero fare di meglio, ma gli concedo di esistere per bilanciare. Se tutto andasse bene, tutto fosse correttamente funzionante, poi come cavolo giustificherei i fallimenti? Io devo avere delle falle nel sistema. Servono della capre respiratorie (si scrive così vero?). Qualcuno a cui dare la colpa. Altrimeni finisco a prendermela con lo zucchero e sappiamo che in uno scontro alla pari vincerebbe lui, mica io. Si può fare una torta senza Matteo ma una torta senza zucchero dai, fa schifo.

Ho chiesto scusa alla psicologa per aver parlato tutto il tempo di me senza nemmeno chiederle come stava. Le ho detto che capiterà spesso, di scusarmi e di sentirmi in colpa senza nessun motivo. Ha detto che avremo modo di parlare anche di questo.

È un piccolo passo ma avere un posto dove aprirmi (oltre a Tumblr ovviamente, che ha sempre funzionato meglio della terapia) mi ha fatto sentire meglio. Ora vediamo se sarà fattibile rimuovere una alla volta una di queste coperte che mi ricopre e che rende inespugnabile il fortino che ho costruito. Anche perché qua sotto ho decorato le pareti con pitture rupestri di decente fattura che mi piacerebbe mostrare, quando sarà il momento giusto. Adesso no.

Adesso devo trovare idee per colazioni alternative senza zucchero e spiegare al francese che nel mio naso io ci infilo le dita non il suo zucchero a velo che disturberebbe solo il mio desiderio di calma e pace e piutture rupestri.

Pistacchione

"Branco di maledetti sfigati" penso tra me e me mentre scelgo di prendere le scale normali, quelle statiche, invece di quelle mobili. Opto per l'opzione sana e sportiva che mi permette di giudicare gli altri e la loro sedentarietà, schiavi delle macchine, pigri, larve. Io sono un uomo migliore, pieno di virtù che mi riconosco giusto un secondo prima di infilarmi in pasticceria e concedermi il più burroso cornetto ripieno al pistacchio che i soldi possono comprare.

Sono dovuto tornare in ospedale, gli occhi hanno ceduto nuovamente. Quello che mi fa ridere è che ieri ho fatto la comparsa in un film. Non era previsto. Ero al corrente di alcuni conoscenti alle prese con questo progetto “cinematografico” ma non pensavo mi avrebbero mai chiamato. Non fosse che avevano il ruolo perfetto per me. "Hai voglia di fare la comparsa e stare seduto in sala d'attesa di un ospedale?". Sembrava veramente fatto apposta. L'ho scritto non so quante volte che uno dei miei più grandi talenti è saper sfruttare i tempi morti e ora l'ho fatto davanti a una cinepresa. Mentre attoruncoli dalle dubbie capacità provavano a ripetere le loro battute io facevo il Paziente n.5, intento a leggere un libro. Un occhio più attento noterà che sto leggendo il mio stesso libro. Un piccolo easter egg che ho inserito per farmi ridere quando guarderò il film. Se gli occhi saranno ancora con me, altrimenti me lo farò raccontare.

Stamattina sono seduto per davvero in ospedale e realmente sto aspettando non che qualcuno urli "azione!" ma che mi dicano cosa fare. Dopo quasi vent'anni ancora mi costringo a non perdere la speranza e dare agli altri la possibilità di dirmi cosa fare, perché se fosse per me saprei benissimo cosa fare.

Mentre arrivava la metropolitana ho guardato lo spazio che c'è tra la motrice e i binari. Se mi butto sotto ma in aria cambio idea e mi rannicchio e mi faccio piccino piccino, riesco a sopravvivere? Riesce a passarmi sopra senza recare alcun danno? Voglio sempre calcolare che ci sia per me la possibilità di tornare indietro sui miei passi, soprattutto quando si tratta di decisioni importanti. Questi pensieri non mi spaventano più perché ho imparato a conoscermi. Sono troppo codardo per fare qualcosa di definitivo. Accetto il lento deterioramento e la fine come inevitabile conseguenza che non posso controllare e mi piace così perché adoro dare la colpa agli altri. Mi immagino a parlare con San Pietro alle porte del paradiso e dire: - Eh no, mi scusi, ma lei mi deve fare entrare, ok che sono stato per tutta la vita un egoista, bastardo e pure vigliacco, ma ha ben visto come è andata a finire, ho allontanato tutti, il mio gatto mi schifa, ho pure perso i capelli e non ho fatto tutto lo sport che ho sempre promesso di fare perché mi sono accettato così come sono e per questo sono stato punito con una morte orribile che non ho scelto! Quindi, mio caro Pietruccio, lei mi deve fare entrare, me lo merito! - Ma veramente qua leggo che la morte è stata causata da soffocamento per eccesso di cornetti al pistacchio… - Suvvia sono dettagli! - …mentre praticava il decimo atto di onanismo della giornata. - Il suo capo non le ha insegnato a perdonare?

Il regista ieri mi ha detto che sono davvero bravo a recitare quello che aspetta di venire chiamato da un dottore. Ho accettato il complimento con un certo orgoglio. Un tempo avrei dovuto combattere contro il mio egocentrismo per essere stato messo sullo sfondo invece di diventare uno dei protagonisti, probabilmente quello più sguaiato e tendente ad urlare. Invece ora guardo queste persone recitare e provarci un sacco a risultare convincenti e sono soddisfatto del mio invecchiamento che mi ha fatto scendere a compromessi con le mie aspettative.

Un giorno, dopo anni di lotta, io e le mie aspettative ci siamo seduti al tavolo e abbiamo iniziato una discussione accesa. Io continuavo a far loro presente che se certe cose non accadono e non sono mai accadute, forse allora, non è sbagliato lasciar perdere, che la speranza è l’ultima a morire quando si tratta di film o racconti per bambini, ma per noi è meglio non dico ucciderla, però farle fare una vacanza a tempo indeterminato. Le aspettative mi hanno ascoltato, anche perché, alla luce dei fatti e del continuo finire ridimensionate un po’ ne avevano le palle piene. Abbiamo trovato un accordo. Abbiamo accompagnato la speranza in aeroporto, dandole un telefono per le emergenze. Ora mi sa che è a Bali, da qualche parte in spiaggia a farsi massaggiare i lunghi capelli da un influencer senza scrupoli. Io e le mie aspettative siamo tornati a casa, abbiamo parlato dei piani futuri e trovato numerosi accordi impensabili su carriera, musica, amore, famiglia, autoerotismo. È stata una trattativa estenuante ma ci siamo riusciti. Ora hanno le dimensioni di un criceto e le ho sistemate sotto alla mia scrivania in una gabbietta piena di paglia. Sono così carine quando si svegliano e si mettono a girare sulla ruota e non vanno da nessuna parte, proprio come nella realtà. Corrono veloci veloci e la ruota gira e gira ma stanno ferme, che spreco di energie! Poi scendono dalla ruota, ci guardiamo soddisfatti e tornano in letargo.

Oggi ho preso il telefono per scrivere un messaggio alla speranza, mentre sta in spiaggia a Bali. Siccome ne ho bisogno le ho chiesto “Andrà tutto bene vero? Mi daranno una nuova terapia che finalmente funzionerà?” e niente, nessuna risposta per qualche ora. Poi si è acceso lo schermo del telefono. “Certo, certo, andrà tutto alla grande. Io invece mi sono infilata un attimo in un megacasino cioè, devi aiutarmi, magari se puoi mandarmi un po’ di soldi, devo pagare non so quanto un influencer che mi ha rifilato una marea di prodotti per capelli promettendomi che avrebbero risolto il problema della calvizie e niente, poi le cose sono sfuggite di mano, pensavo di riuscire a corcarlo di legnate da sola e invece tutti quei muscoli erano veri e non generati da una IA, ora mi ha rinchiuso nella sua cantina e se non pago non mi lascia uscire, quindi dai, in onore dei vecchi tempi, mandami uno dei criceti con banconote di piccolo taglio”.

In ospedale ancora non hanno detto il mio nome. Ancora aspetto. Lunedì tornerò in terapia, non più psicanalisi però. Normale psicologia temo. In tedesco poi. Non tanto perché sento di averne bisogno ma per riattivare il superpotere passivo aggressivo supremo che oramai non posso più usare, quello che mi faceva dire con orgoglio: “Sai, secondo me dovresti provare ad andare in terapia cioè, io ci vado, secondo me farebbe bene anche a te”. Mi manca essere snob e dire agli altri cosa fare. Adesso nessuno mi da ascolto, nemmeno sulla qualità dei cornetti al pistacchio (dato che uno di loro mi ucciderà). Si tratta solo di capire quale sarà l'ultimo. Quello di un’ora fa, o quello che mangerò non appena uscirò dall’ospedale? Chi lo sa! Suspance!

Devo trovare una donna delle pulizie minuscola e farla entrare dentro al mio orecchio e chiederle di fare pulizia tra i miei pensieri.

I parenti mi chiedono come sto e che programmi ho per il futuro dato che oramai insomma sono il vecchio che non dovrebbe più stare seduto al tavolo dei bambini ma io gli mostro i miei disegni e poi spiego che ora ogni tanto ospito pure un cagnolino e Ernesto l’ha accettata e che questo mi rende felice e ottimista verso il futuro ma loro però volevano sapere tipo quando tornerò a fare un lavoro normale o metterò su famiglia e io spiego che il piano adesso è comprare un cappellino da babbo Natale per il gatto e le corna da renna per il cane e essere preparati meglio per l’anno prossimo così mi lasciano in pace.

Ho inserito Ernesto nel designato trasportino per andare a consegnarlo presso la casa vacanze dove passerà queste festività. Per strada tutti mi guardavano. Ma che idiozia. Mica guardavano me! Guardavano lui! Quanti cuori ha spezzato in pochi chilometri ma è così che deve andare. Io lo pretendo. Quando Ernesto esce di casa tutto il mondo deve capire quanto è bello e tutti devono sospirare e fermarsi e le macchine perdono il controllo e si tamponano in un incidente dopo l'altro e la gente su i balconi cade e i motorini scivolano e le ragazze gli lanciano i numeri di telefono e cani si piegano al suo cospetto. Così deve andare. Io non voglio neanche essere notato, io sono solo un paio di gambe dotate di spalle su cui caricare un trasportino a zainetto per portare in giro sua maestà Ernesto il gatto rosso bastardo e infame. L'ho lasciato da una mezz'ora e mi manca già tantissimo. È in una casa di amici che si prenderanno cura di lui in attesa di ricevere a loro volta un gatto donato dalla lotteria dei gatti universali. Quella lotteria che dispensa palle di pelo a chi ne ha bisogno. Io capisco solo adesso di cosa avevo bisogno. Di sentirmi a casa. Di sapere dove fosse casa. Casa è dove i miei vestiti si ricoprono di peli aranciobiancastri. Dove devo sottostare alle paturnie di un promettente obeso. Dopo tanto tempo però, ho una casa. Qualcosa che non dipende da altri umani. Per tantissimi anni ho vissuto da solo, sognando di non essere solo. Ora ho accettato la solitudine e mi ci rifugio e non mi spaventa più. Non mi spaventano i miei sogni irrisolti e le mie mancanze e i miei limiti perché tutto perde di valore quando devi pulire più volte al giorno i vomitazzi di un felino ingrato il cui unico riconoscimento che concede è stendersi al tuo fianco quando tutto sembra insostenibile. Per ricordarti che i tuoi problemi non valgono un cazzo. Non vali nulla. Sei minuscolo. L'universo esiste per ricordarci quanto siamo piccoli noi umani. Quando pensi agli altri pianeti, alle stelle. Poi l'universo dispensa gatti e a me ha mandato Ernesto, perché avevo un ego smisurato che andava ridimensionato e ora accetto il mio destino di gambe per trasportino. Quanto mi manca quell'infame. Ma vi rendete conto che poi c'è gente che fa figli, cioè ma dai, ma che priorità avete.

You are using an unsupported browser and things might not work as intended. Please make sure you're using the latest version of Chrome, Firefox, Safari, or Edge.