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Vacuum

Eccomi, come sono prevedibile.

Certi ricordi quando arrivano fanno lo stesso suono secco di un manganello in faccia, di un alfiere che butta giù la regina e poi se la mangia, della palla da biliardo quando incontra il triangolo e sboccia. Si soffoca senza nemmeno troppa pressione sul collo. Il cuore per il troppo battere, si crepa.

Fa un rumore sordo come il bianco all’improvviso di un ramo troppo carico, come la stanchezza che si deposita sulle palpebre dopo le battaglie nella testa.

Come un rosario, una fila di grandi speranze in cerca della loro occasione in mezzo a qualche briciola. Sporca miseria di chi fallisce e non ne può più di ricominciare. Non c’è intimità, non c’è complicità. È tutto sforzo per una normalità apparente.

Sono un accadimento leggero tra le pieghe di una vita che non conosco per intero. Questo pezzo che manca, questa stanza tutta angoli che va a finire è un istrice. E deve essere una vera capacità, rara quella di trovare sempre un senso in ogni fuggire per scampare l’ennesimo naufragio.

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Ogni lettera è una lettera d’amore

Caro Julien,

sono tornata da poco dalla fattoria di Sasà.

Abbiamo raccolto l’ultima uva stamattina e messo nella stalla tutto il fieno che era rimasto per gli animali, poi – non potevamo stare senza - abbiamo finito per saltarci sopra, dalle travi lassù in alto, tante e tante volte come non facevamo più da tempo.

Avevo dimenticato com’è affondare per ore in quella coltre soffice e appuntita di giallo color terra bruciata e passare il doppio del tempo a toglierci le paglie conficcate nella pelle.

Un po’ male, ma forse perché oggi sono più permeabile del solito, sono tutto endocardio.

Come fossi un grande unico cuore, untuttacuore.

Mi ricopro.

Sono troppo esposta.

Ho fatto a mano una coperta di lana con le geometrie rubate a mia nonna, lei si che ci sapeva fare: per il momento è un trapezio scaleno di dubbio gusto ma se la metto addosso non si vede poi tanto che è tutta storta.

Ho ricominciato a dormire abbracciata a qualcosa queste notti, a volte il cuscino, a volte la borsa dell’acqua calda, a volte i vestiti appallottolati.

Occupo pochissimo spazio.

Ancora di più da quando non ci sei.

Ho riempito la stanza di cose, che quasi non ci entro più, molte sono ammucchiate in fondo al letto come alghe e di notte navigano.

Faccio capriole sdrucciole sul letto, rotolando tra gli accenti che mi hai lasciato sparsi sul materasso.

Quale lingua hai imparato oggi?

Stanotte ti ho sognato.

Eri il mio vicino di casa, ma sotto, come in un condominio.

Ricordo che ti ho scritto un messaggio su un foglietto e te l’ho calato dentro un secchiello di latta con il filo, fino ad appoggiarlo sul davanzale della tua finestra, ti scrivevo che la cucina mi soffocava, perché dalla sala l’unico modo per arrivare di là era un tunnel stretto molto stretto così tu hai scritto sul soffitto di casa tua che dovevo provare a fare il percorso inverso, a camminare dalla cucina alla sala.

Io non ci riuscivo così sei entrato in casa mia per fare esplodere il tunnel con un fiore di zucca e i miei non ti hanno visto, solo io potevo.

Poi mi sono svegliata, Camillo mi stava masticando i capelli come fossero le sue carote.

Tra bocca e bocca mano a mano allora, ho scritto pagine bianche ricordando il futuro con i baci che mi hai dato tra sette anni.

La notte quando vai via scappando perché avevi più paura di quello che proveresti che della lontananza delle nostre case chiudo le finestre e serro la porta, sta per arrivare un temporale, quasi sempre, conto i gatti e chiamo Camillo, mi preparo per la notte, mi infilo la mano tra i capelli per cercare di te quello che mi è rimasto.

La notte a quel punto si moltiplica.

È tutto tempo che si auto genera.

Tutto quel buio, Julien, ti assicuro, non finisce più.

Ma poi sei nel libro che leggo prima di addormentarmi, ti sorprendo che sfiori le pagine con le mie mani, che sei il protagonista e l’antieroe, sei pag. 44 che mi ha fatto fermare e sottolineare, e l’ultima parola di pag. 126 perché inizia con la sillaba con cui inizia il tuo nome.

In tutto quel silenzio rimbomba il tuo odore di terra bagnata e muschio bianco e legno fresco – credo che domani andrò ad acquistare uno scatolone di bagnoschiuma spremuta di sotto bosco -  il mio naso te lo regalo.

Io non ce la faccio più a starci insieme.

Mi ricorda sempre di te ogni volta che piove o che cammino per le strade di Milly-la-Forêt.

Basta un po’ di vento e torni prepotente a bussare alla porta delle mie narici mai stanche di ospitarti.

Come un frutto immaturo in un tempo sbagliato.

Sei così lontano, Julien.

Il tempo vince sempre, ma anche lo spazio non scherza.

È ancora come quando te ne sei andato, con noi ci vogliono combattere tutti, per perdere.

Si vede che si è sparsa la voce che le farfalle leccano il polline dalle nostre pareti ferite e tutti vogliono provare.

Ci sono gli ulivi lì?

Non vorrei non trovassi nessuna pianta da mettere nei cimiteri.

Scrivimi, se trovi una matita.

Ti saluta tua mamma, passa di qui ogni giorno a portarmi i suoi iris freschi e le peonie.

L’edera è arrivata al tetto.

E Cècile è cresciuta.

Non dimenticare la ricetta del pane ai semi di papavero, te ne prego.

Non lo sopporterei.

Ti ho detto già scrivimi?

Scrivimi.

Ecco.

C

[rorida, 2009: ero già tutta qui dentro]

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Pensieri strozzati

Da quando ti conosco ho più post in bozza.

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Penelope is dead

Ho appena finito di leggere Un altro giro di giostra di Tiziano Terzani. È un libro che in ognuna delle 588 pagine mi ha fatto fare i conti con la paura della morte che ho e che ultimamente mi prende di sorpresa e mi stringe la pancia, mi agita la testa fino a che non arrivo da nessuna parte, si spezza, buio e giù il sipario. 

Terzani nel libro racconta la sua vita da quando ha scoperto di avere un cancro: gira tutto il mondo, da New York all’India, per incontrare medici e cercare cure, per poi scoprire che “la cura delle cure non esiste e che la sola cosa da fare è vivere il più coscientemente, il più naturalmente possibile, vivere in maniera semplice, mangiando poco e pulito, respirando bene, riducendo i propri bisogni, limitando al massimo i consumi, controllando i propri desideri e allargando così i margini della propria libertà.”

Io sono sempre in un periodo particolare della mia vita, ho sempre rospi da ingoiare invece che da baciare, ho sempre qualcosa che non va, di cui penso sarebbe splendido lamentarmi ma non lo faccio perché in fondo provo piacere a raccontarlo più a me il grigio, che agli altri. Non lo faccio perché ho questa dote innata di accumulare e accumulare, essere anche molto capiente e poi un giorno andarmene senza troppe spiegazioni.

Non credere, scriverlo qui è un altro modo per tenermelo dentro. 

Sono sempre in attesa, di qualcosa di nuovo, di emozionante, di un viaggio, un incontro, una rivelazione. Vivo una vita sfuggente che non acchiappo mai, una vita a fuggire e mai qualcuno che mi acchiappi sul serio. Sono bella da lontano, come i tramonti.

I momenti più interessanti della mia vita non sono le cose che ho fatto ma le mie epifanie, quando capisco qualcosa che è così fondamentale che devo ribaltare tutto.

L’epifania di oggi è che non voglio più aspettare qualcosa che non è detto che succederà o che cambierà, qualcuno che non è detto che arriverà. Terzani parla di “ridurre i propri bisogni” e “controllare i propri desideri”: non sono tanto azioni sensate per un buon domani quanto per un oggi più pieno che non crea rimpianti.

Penelope è morta. E mentre la guardo stesa e immobile, fredda, bianca e bellissima penso che adesso che non c’è più mi aiuterà a fare pace con la morte, a vivere con le mani nel presente e non con gli occhi al futuro.

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Quella volta che mi hai aperto gli occhi

[Non ti leggo più le poesie prima di dormire, non apri più le mie lettere, giacciono nella cassetta della posta per giorni e giorni prima che passi Sofia a portarle in casa, non disegniamo più sulle pareti gli animali che sogno di notte.]

È ricominciata la stagione della caccia. 

Nella baita ho trovato una vecchia cucina a legna e qualche pentola incrostata, l’armadio pieno di coperte impilate bene, il bagno, con le mattonelle blu, freddissimo come se la finestra fosse rimasta aperta per tutto l’anno. Sopra il letto c’è la mappa dei sentieri, sul comodino “Orientarsi con le Stelle” di Carver, due modi di andare, di venirti a cercare soprattutto.

Fuori si mette a piovere e il picchiettare della pioggia sul tetto diventa una sinfonia d’orchestra con lavabo solista: perde, ma io non so proprio dove mettere mano per aggiustarlo e di improvvisarmi idraulico non ho voglia. È oggi  che hai scelto di incontrarmi, è in questo tempo umido che mi hai dato appuntamento.

Metto l’impermeabile rosso e blu, quello con cui sembro una grande caramella gommosa di una bancarella di una città di mare: mi inoltro nel verde, le prime foglie gialle sotto i piedi diventano un tappeto semi-croccante e i rumori che conosco bene non ci mettono molto a diventare dubbi. È pieno di conifere e tutta questa altezza mi dà la sensazione di avere gli occhi addosso di mille animali dal sangue caldo, attirati dalla curiosità, bloccati dalla prudenza. Mi fermo, mi guardo intorno e girando su me stessa disegno con lo sguardo un cerchio. Nel petto caramellato la sensazione quasi dolorosa di essere solo un ospite.

Mi accuccio dietro un tronco caduto, ormai non faccio più caso all’acqua che mi cola da ovunque. Rimango in una posizione scomoda fino a quando le ginocchia non fanno male.

L’ultima volta che ci siamo visti mi hai fatto un discorso che riguardava il tempo, l’importante è che capisci che è disomogeneo mi hai detto, e lo spazio pure e di come è correlato con la gravità, con il caldo e il freddo ma in una sola direzione: non avevo capito granché, ma mi andava bene sentire la tua voce e ogni tanto vederti sorridere per le domande sciocche che ti rivolgevo.

Non avevo capito molte cose e ancora mi interessavo troppo di quelle di poco conto. Solo a chi dirige le stagioni e gli elementi, a chi comanda gli astri e le maree davvero non importa del maglione sporco di marmellata, dei soldi guadagnati quest’anno, dei concerti mancati, della cassettiera abbinata al letto, dei baci e dei silenzi per preservare equilibri che non esistevano se non nella testa.

E poi sei. Sei fermo in mezzo alla radura a forse 10 o 15 metri da me: come ogni volta mi aspetti immerso in un’aurora di cristallo, per nulla sorpreso di vedermi, mi fissi e piano avanzi, facendoti spazio tra le ragnatele che sono i centrini all’uncinetto della natura; cerco di sostenere il tuo sguardo fiero, ma non vinco, tu sei senza giudizio e io troppo umana.

Hai sul manto castano i segni della lotta, ti avvicini abbastanza perché io li possa sfiorare. Non me li aspetto mai così morbidi. Le tue cosce magre e nervose, gli occhi grandi e neri, il tuo naso, che ha inventato l’odore dell’autunno.

Mentre sono ancora a letto, i colpi di fucile mi ricordano che la stupidità non dorme. Mi alzo e accendo la legna per farmi un caffè. Scelgo una tazza bianca di latta. Prendo il cambio degli asciugamani puliti dall’armadio in corridoio e richiudo il libro di Carver sul comodino che era rimasto aperto dalla sera prima.

Di quella lezione sul tempo, ho capito solo che è troppo poco e noi non siamo abbastanza eterni per perderne anche solo un po’. 

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Volevo scriverti, non per sapere come stai tu, ma per sapere come si sta senza di me. Io non sono mai stato senza di me e quindi non lo so. Vorrei sapere cosa si prova a non avere me che mi preoccupo di sapere se va tutto bene, a non sentirmi ridere, a non sentirmi canticchiare canzoni stupide, a non sentirmi parlare, a non sentirmi sbraitare quando mi arrabbio, a non avere me con cui sfogarsi per le cose che non vanno, a non avermi pronto lì a fare qualsiasi cosa per farti stare bene. Forse si sta meglio, o forse no. Però mi e venuto il dubbio e vorrei anche sapere se ogni tanto questo dubbio è venuto anche a te. Perché sai, io a volte me lo chiedo come si sta senza di te, poi però preferisco non rispondere che tanto va bene così. Ho addirittura dimenticato me stesso per poter ricordare te.

Diario di un seduttore, Søren Kierkegaard 

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è da come spariscono che capisci cosa dovevi imparare.

è da come nascondono che li vedi per quello che sono davvero.

è dal primo che ti mente che smetti di credere a chiunque.

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È il tre maggio, su coraggio

Ho passato la mattinata in una stazione di Polizia. Sono stati anche carini quando ho detto che l’avevo fatto apposta, che non me ne fregava niente delle loro regole di merda e che il rilevatore di velocità, quello per il controllo della revisione e dell’assicurazione se li potevano mettere tranquillamente su per il culo. 

Mi hanno sorriso come se ci andassero a nozze e mi hanno alzata da terra mentre scalciavo e davo fondo alle mie ultime gocce di voce mentre quegli altri due mi sequestravano la macchina e io ero fuori di me, avrei potuto dire voi non sapete chi sono io, ma non l’ho detto perché in fondo nemmeno io sapevo più chi ero io.

Non mi è mancato il coraggio. Ce n’è voluto un sacco quando ho deciso di tacere e poi di dire, di fare e di aspettare, di trattenere e di lasciare andare, di osservare e di non guardare, di ricominciare. C’è voluto il coraggio per amare, per smettere di farlo e per non innamorarmi mai più. C’è voluto coraggio a ignorare la complessità della macchina e la semplicità degli ingranaggi, a scegliere la mia vita preferita e poi a buttarla nel cesso per un particolare che non si incastrava, che era piccolo ma a me sembrava gigante (questione di prospettiva), a fare i conti con l'indecenza, con il passato, con gli alibi.

Ho coraggio quando mi spacco la testa, quando imparo la lezione, quando mi scelgo: il coraggio della solitudine, della notte bianca, dei ruscelli fino al mare, della fatica, della violenza verbale che non si addice a una femmina.  Il coraggio della verità, di qualsiasi verità si tratti, per guardarla senza abbassare lo sguardo, per difenderla, per non trovarsi un giorno a singhiozzare per averla presa in giro.

Ci vuole coraggio per predicare bene e ruzzolare via; per salire sul pulpito del dolore altrui e sparare sentenze come fossero preghiere autografe; per credere di essere salva, salvata dal mio stesso destino, dalle mie gesta del passato mai cadute in disgrazia.

Siamo solo persone che non si incontreranno mai, che anche quando si incrociano, si osservano, si scelgono e poi decidono di buttarsi via.  

Senza coraggio è tutto un gran baccano di parole, di sguardi altrove, di rivelazioni, di corpi, e niente di niente lascerà più un segno. 

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Il mio nuovo telefono è il tuo

È sera, ma non del tutto. Sono stanca ma non del tutto. Ieri mentre parlavo con la mamma mi è volato il telefono e si è schiantato al suolo; lo schermo si è rotto in mille pezzi lasciandomi qualche scheggia tra le dita e una faccia non troppo convinta. Era un bel telefono, mi piaceva, anche se aveva già gli angoli segnati dalle cadute e solo 10 mesi di vita. Si potrebbe riparare forse, ma ho imparato che io le cose rotte non so più usarle e come succede per le madri dei pesci, lascio andare, forse anche con un po’ di crudeltà perché si allontanino da me al più presto. Per tamponare la situazione, memore del fatto che gli ultimi 20 acquisti importanti sono stati tutti compulsivi, ho rimesso in moto un vecchio Nokia 1520. Una padella gialla che ora mi sembra andare lentissima, crashare di continuo, non avere nessuna delle App che mi servono, in genere non avere nemmeno una possibilità in questo mercato da 20 megapixel, 128 giga, octa core e molti euro ma ehi, ragazza che icone grandi che hai.

Quanti ricordi si trovano nei vecchi telefoni che abbandoniamo, quanta vita, quante cose che sarebbe meglio dimenticare, quanti posti da visitare ancora. Tutte quelle foto che, dai, siamo sinceri, non riguarderemmo mai più se non in un raptus premestruale o aspettando una chiamata che tarda ad arrivare. Penso a un antico concetto d'amore, di patria innocente, alla perdita, a una casa che è tutte le case.

(La sensazione è di chi sta ferma con il cervello troppo pieno per poter dire bene quello che prova e di invidia per chi fa uscire, scalciandole, le parole, un fare che potrebbe sembrare confuso, ma che in ogni caso risulta liberatorio.) - intuizioni messe fra parentesi in attesa di spiegazioni -

In quelle foto tu ancora non ci sei. Non eri ancora arrivato. Nel telefono nuovo, invece, ci sarai tu e anche un sacco di noi. Ci sarà il mio modo di vederti, di guardarti con estremo interesse, di collezionare i dettagli del tuo viso, dei tuoi movimenti, della grana della pelle, delle tue espressioni. Ci sarà la stessa cura con cui ho immaginato mio nonno collezionare le pipe, lo stesso impegno o almeno così mi era sembrato dalle foto che mi aveva fatto vedere una volta la nonna. Succede anche quando sono stanca e sarei giustificata a percepire le cose in maniera sommaria. È successo anche l’ultima volta che ti ho visto, anche se era dietro un monitor, anche se era qualche ora fa. In quel poco tempo ho avuto l’impressione di essere un pesce. Chiariamo, non un pesce madre, che lascia andare i pesci figli in un mare di guai senza rimpianti, ma un pesce fidanzata, che a ogni respiro riapre le branchie come fossero antiche ferite ma senza dolore.

E mi chiedo se trovi mai, in quei pochi giorni al mese in cui viviamo insieme, nel lavandino invece dei miei capelli le onde, se ti accorgi che non voglio più scappare da nessun posto ma scoprire con forza verso cosa andare, se ti viene mai voglia di mettere a verbale i nostri incontri come sto facendo ora, per capire come sia possibile che ci lasciamo sempre interi ma mai intatti.

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Close

la mia gatta ha un problema con le porte chiuse. appena ne chiudo una, ci si mette davanti e inizia a miagolare. poi la apro, fa mezzo giro nella stanza e se ne va. 

io davanti alle porte chiuse ho imparato a starci, ho passato più tempo fuori che dentro. le porte aperte, con quell’arietta che tira, mi fanno venire il torcicollo e rischio di guardare da una parte sola volente o nolente. 

davanti alle porte chiuse non miagolo, non mi senti e se guardi bene non sono già più qui. 

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Lupus: sintomi

Sono diventata lupo per poter sopravvivere a ogni altra presunzione, perché prima di mangiare importa non rimanere uccisi. Bestia spudorata con gambe più forti dell’inutile cuore che continua a dire sì con la grammatica di un tempo che non ha ancora imparato a declinare. Un fegato pronto e l’odore del sangue sul collo.

Ho attraversato fiumi fino a non ricordare più se era per arrivare dall’altra parte o per perdere fiato. Ho sentito le braccia fare male contro l’acqua contraria, la pelle gelare come la prima volta di fronte a un uomo. Irregolare il mio ritmo ma senza fine la bocca, il corpo pesante di fatica, la temperatura conservata quel poco che basta.

Ho conosciuto ogni cosa per curiosità e speso ogni cosa perché di niente mi importa più davvero, e scoprirlo non è stato un granché. Ogni piccola cosa che ho scritto scioglietela nel vino, a ogni fragile cosa che ho pensato spezzate le gambe.

Quando mi hai detto che occhi grandi che hai, io non ti ho mangiato come avrebbe fatto un lupo qualsiasi, ma ti ho detto che peccato che con te io debba chiuderli sempre.

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Barrique

Ho un lavoro e molto meno mestiere, non me la godo se non provo passione. Metto insieme parole che mi piacerebbe ascoltare, ne dico altre che spero qualcun altro un giorno mi dirà,  guardo sempre meno con gli occhi e più attraverso le lenti di ciò che ricordo. Rispetto ma non so aspettare, sono più voglia che pazienza. Ho la stoffa dei sognatori ma non gli stessi colori, tendo alla solitudine e agli uomini intelligenti. Credo nel sesso che parte dalla testa, nel vino buono, alle persone che non sono la gente anche se a volte genteralizzo.

Le foto in bianco e nero sembrano sempre belle. Questione di eleganza, moderazione, di tono. Di malinconia, forse, dove ci sono solo il chiaro e lo scuro e qualcosa nel mezzo. Maneggiare i colori non è cosa facile. È come raccontare i propri sentimenti e non annoiare, roba per pochi. Come fare un buon vino senza usare troppa barrique.

C’è in corso, da tempo, un’omologazione del gusto. Quello che era l’Italietta è diventata un’Europeuccia, poi un piccolo mondo di cui non troviamo neanche un nome decente. E l’uguaglianza, in questo periodo di falsa tolleranza, non è una conquista ma l’imposizione del mercato in nome del mercato.

“Non potendo impedire che accadano certe cose si trova pace fabbricando scaffali” diceva Pasolini. 

La diversità, il timbro, i colori sbattono contro questi “slavati feroci infelici fantasmi” in bianco e nero che ogni major precipita sulle nostre orecchie, che fintamente ci elargisce attraverso spacciatori in modulazione di frequenza al fine di creare un gusto collettivo, un regime musicale, una dipendenza, una moda.

Ma è una rete a trama larga, questa, e non tutto è sotto controllo. La luce passa e forma colori che qualcuno, ancora, suona e qualcun altro fotografa. Con gusto e garbo. Con pudore, verrebbe da dire. Senza barrique.

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Incendio in stop motion

Il cielo, vero sera, ha il colore dello zucchero filato, delle pareti delle pizzerie dove i militari fanno l’amore con le cameriere, di un altrove qualsiasi perché sappiamo ancora immaginarlo. Il cielo, verso sera, mi fa sentire destinata e precisa come un giorno di storia, vestita d’amianto per sopportare ogni misera storia, allenata a ogni cosa tranne quelle che stanno nel mio petto.

L’essere umano è un tipo strano, fissato per i piccoli oggetti che si trovano sui marciapiedi, fissato per i particolari che osserva senza sentire la necessità di darne una spiegazione ma limitandosi ad accettarli con generosa gratitudine e un riconoscibile dolore. Per le domande inutili come cosa si nasconda dietro ogni francobollo. Cosa si nasconde dietro alle parole che hai scelto per dirmi che rimanevi quando poi era chiaro che stavi andando. Per le inutili astrazioni che spesso immaginano scabrose realtà.

Partire, allora. Partire comunque. Non necessariamente viaggiare ma trovare una strada nuova e inseguire ancora l’orizzonte prima che si perda nel tramonto. Lasciare i fiori ormai prossimi a schiudersi, prima che si spoglino di ogni colore. Lasciarli così per ricordarli intatti, come i sogni a cui credo più dei fantasmi e della libertà.              

Ripartire. Con la medesima malinconia e una nuova nostalgia. Dopo aver dipinto le pareti per il prossimo inquilino e imparato scuse nuove e nuovi dolori. Partire ancora. Come una balena dalla pelle tatuata dal tempo alla ricerca di altra acqua e sentimenti. Come chi ha aspettato per una vita che tu arrivassi senza curarsi della propria pioggia e ora ti lascia andare.

Partire da qui, perché il resto è uno stupido gioco che cerca di sostituire l’amore e dà fuoco al cielo.

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Il mondo in mondovisione

Era morto, il mondo. E, come ogni altra volta, a un certo punto è rinato. Negli anno ’60, tra sorrisi, boom e cose semplici come la musica che c’era, sufficiente per rimorchiare e farsi due viaggi in santa peace and love.

Poi è cresciuto, ha avuto crisi violente da adolescente, di quelle che cambiano gli equilibri, ci provano, sopravvivono, come brufoli che lasciano il segno su una pelle che non ha ancora trovato la sua strada. E quando si è calmato era negli anni ‘80, più stupido di prima e buono solo per ballare anche se è riuscito ad abbattere qualche muro prima che suonasse la sveglia.

Negli anni ‘90 ha costruito strade che si muovevano veloci, ma non abbastanza da allontanarlo dagli idioti e dai violenti, dai modi incuranti, dai ricordi ingombranti. Cercava consolazione negli schermi, nei messaggi che si ostinava ad aspettare. 

Tutto sembrava succedere in quegli anni ma era solo il tempo che passava. 2000. 

Escogita ogni giorno nuovi trucchi per farsi meno male nonostante crollino torri come castelli di carta. Ostenta sicurezze passeggere ed è strano, quasi, quando si accorge di saper ricordare.

Si muove verso occidente per ritrovare l’orizzonte, sperando che il futuro che lo separa dal mondo che vorrebbe essere, sia come quello che aveva immaginato una mattina di tanto tempo prima in un letto di stelle. 

È invecchiato, il mondo. Ha camminato per quasi altri vent’anni, ha creduto di saper amare. E ora ha mezza età, qualche capello grigio e nuove crisi perché non sa dov’è andato, ha un milione di rimpianti e di curiosità, uno per ogni altra storia possibile. Si è scoperto nudo, come un imperatore stupido, come un presidente vuoto.

Ha 57 anni, il mondo, e passa il tempo a salutarci e ritornare, con milioni di lettere, consonanti talvolta, lasciandoci qualche bacio, una cena da riscaldare nel microonde, un segno che dopo aver fatto fatica a imprimersi adesso non vuole più andare via.

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Finché sarò amo senza esca

Ho paura come una balena in una piscina che nello scarico nasconde un mare più aperto e imprevisto. E solo quest’acqua è dolce in una vita che mi va benissimo salata come il prezzo che pago per convincermi che sia tutto infinito.

Paura della fantasia senza coraggio, della libertà senza fantasia, della carne alla brace, del giudizio che do e che ricevo, di chi parla nel sonno e russa, del consenso indiscriminato, della rivoluzione silenziosa in cui si sentono le urla delle parole che non ce l’hanno fatta, dei rumori senza tatto. Di proiettili gratis che  si sono incastonati tra le costole ma è bastata una doccia per farli scivolare via, tra i piedi e un po’ di schiuma. Di chi si nasconde dietro l’autenticità e non capisce che è solo mancanza di delicatezza. 

C’è stata ogni cosa e il suo contrario e per ogni nave arrivata in porto un’altra è andata a fondo. 

Che io sia miope è una fortuna. Porto lenti spessissime che tolgo volentieri. Lascio cadere la nebbia, artificiale e privata, sul resto del mondo e tra queste ombre informi mi sento a mio agio.

Sono nuovi giorni che passano come niente, tra un mettere a tacere e un credere alle parole inutili di ogni faccia nuova. E non rimane la bellezza, ma solo la lingua che batte dove la mente vuole.

Quello che sono è solo qualcosa da regalare a chi mi va. Prima che la paura diventi mare. Prima che le gambe diventino alghe.

Finché sarà possibile. Finché saprò nuotare. Finché sarò balena. 

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Quando ho incontrato te

Ci incontriamo davanti a un bicchiere, a una scrivania, a una chiesa. Per lavoro, per destino, per premeditazione. Un incontro è il tempo che ci mettono occhi e profumi a incrociarsi mentre nel frattempo, di nascosto, qualcosa, da un’altra parte, ci rimane attaccato. Ci presentiamo con una stretta di mano ma ci vuole molto più di un braccio per essere presenti.

Qualche mail, molti sguardi, diversi rimpianti, sconfinati album di foto in digitale, svariati aggettivi subito dopo soggetti singolari, un disagio, spesso un vuoto.

Ci sono, esistono, incontri di forte sentire, di molto sorridere e di poco parlare.

Incontri che potresti morire subito dopo e sarebbe abbastanza così. Altri, sbagliati, ma sbagliati sul serio. Vino compreso.

Ci sono incontri che capitano quando non cerchi niente, e incontri che sono stati fatti capitare.

Quella sera che ti ho incontrato ed eravamo stati invitati a una festa, una festa privata al mare, talmente privata che c’eravamo soltanto io e te, nudi, le tue mani coprivano i miei brividi meglio di coperte, i vestiti che ce li stavano per portare via, il ricordo di quella ricetta che mi avevi insegnato che provo a rifare da sola ma non è mai uguale. Ecco, poi ci sono incontri perfetti, come quando ho incontrato te.

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