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Nell'area bergamasca si trovano, ad oggi, 68 centri di accoglienza che ospitano più di 2000 persone provenienti da decine di paesi. Aspettano l'esito della loro richiesta di asilo: un'attesa che può durare mesi, a volte persino anni. Vi raccontiamo le loro storie.
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Oki Doki Film ha realizzato per Storie in pausa due video che raccontano il mondo dell'accoglienza e il rapporto tra i richiedenti asilo e il lavoro: in un'immaginaria sala d'attesa, alcune persone (richiedenti, operatori, comuni cittadini) si incontrano e trovano il tempo per confrontarsi (un tempo che purtroppo, nella realtà, troppo spesso si fatica a trovare). Ecco il secondo video, dedicato al lavoro.

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Oki Doki Film ha realizzato per Storie in pausa due video che raccontano il mondo dell'accoglienza e il rapporto tra i richiedenti asilo e il lavoro: in un'immaginaria sala d'attesa, alcune persone (richiedenti, operatori, comuni cittadini) si incontrano e trovano il tempo per confrontarsi (un tempo che purtroppo, nella realtà, troppo spesso si fatica a trovare).  Ecco il primo video, dedicato all’accoglienza.

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SALIF

È stato Ammar, vice-coordinatore del centro d'accoglienza del Gleno, a parlarci di Salif. “Frequenta la terza media serale”, ci ha raccontato, “e prima di andare a dormire scrive poesie”. Incuriositi, siamo andati a conoscerlo. È un ragazzo giovanissimo: ha 18 anni, è arrivato in Italia nel maggio del 2015 dal Gambia. “Lì vivono mia mamma, mio papà, quattro sorelle e due fratelli. Io sono partito subito dopo aver finito la high school”. Gli chiediamo di cosa parlano le sue poesie. “Sono poesie politiche”, ci dice, “In Africa troppe persone fanno promesse che poi, una volta arrivati al potere, non mantengono. Credono di essere diventati i padroni del loro paese, e fanno gli interessi loro e dei loro amici”. No more one man for one nation e The coffin of freedom [La bara della libertà] sono i titoli di alcune poesie di Salif, che, scopriamo, ha scritto anche un libro, Africa awakened.

“Gli Stati Uniti d'Africa non nasceranno con la nostra generazione, ma nasceranno con quella dopo, o con quella dopo ancora.”

“Credo negli Stati Uniti d'Africa”, spiega, “Non nasceranno con la nostra generazione ma nasceranno con quella dopo, o con quella dopo ancora: lentamente si sta formando l'idea di un continente comune, con obiettivi comuni”. Il pensiero va, quasi automaticamente, alla situazione attuale dell'Unione Europea. “Secondo te”, chiediamo a Salif, “Un giorno esisteranno gli Stati Uniti del Mondo?”. “No”, ci dice, “Secondo me no, per lo meno finché non ci sarà una democrazia vera, che non venga usata dai paesi occidentali come strumento per manipolare il resto del mondo. L'idea di democrazia è perfetta, ma non viene applicata realmente”. Chiediamo a Salif di raccontarci qualcosa della sua vita quotidiana: “Quando sono arrivato qui ho iniziato subito a studiare l'italiano: «Sono in una nuova nazione», ho pensato, «e se voglio integrarmi la prima cosa è imparare la lingua». Ora frequento la scuola media serale all'Istituto Pesenti. Durante il giorno lavoro come volontario alla scuola della Parrocchia San Francesco”. “E gli altri richiedenti cosa pensano di te?”. “I try to inspire people”, dice Salif, “Molti di loro scattano foto di belle macchine o case che mandano via Whatsapp agli amici rimasti nei loro paesi per fare bella figura. Per me questa cosa non ha senso, è il fool's paradise [paradiso degli sciocchi]. Glielo dico apertamente. E molti di loro, fortunatamente, mi ascoltano”.

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GIULIA, mediatrice

“Faccio la mediatrice da gennaio di quest'anno”, ci dice Giulia, che ha 29 anni e si occupa della mediazione di tutti i corsi di formazione organizzati dalla Cooperativa Ruah. “Vengo da tutt'altro mondo: prima facevo l'impiegata commerciale per un'azienda, avevo a che fare con i clienti stranieri, poi sono rimasta disoccupata e Roberto [responsabile dei corsi di formazione della cooperativa] mi ha proposto questo lavoro. Il primo impatto è stato molto positivo: prima non avevo molti contatti con le persone con cui lavoravo”. Giulia ha seguito corsi di formazione per operatori meccanici, operatori agricoli, panificatori, operai edili, saldatori, e anche un corso di cucina.

“Molti formatori mi hanno detto che al giorno d'oggi, soprattutto tra i nostri ragazzi, è difficile trovare persone così volenterose.”

“A livello di cultura personale è un lavoro molto interessante, ho imparato un sacco di cose. Mi è piaciuto soprattutto il corso di cucina: anch'io ho potuto partecipare, in alcune fasi”. Le chiediamo se ha mai avuto difficoltà nel lavoro di mediazione: “Nel relazionarsi ni, nel senso che all'inizio ho fatto un po' fatica ad abituarmi al loro modo di parlare, hanno tanti accenti diversi e nel primo periodo chiedevo spesso di ripetere due volte le cose. Umanamente invece nessunissimo problema: anzi, mi ha colpito molto il fatto che in quasi tutti i corsi i professori, i formatori, siano stati molto soddisfatti dell'atteggiamento degli «studenti». In molti mi hanno detto che al giorno d'oggi, soprattutto tra i nostri ragazzi, è difficile trovare persone così volenterose, con così tanta voglia di fare. E anche così educate: i giovani spesso hanno un modo di fare un po' arrogante”.

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BENJAMIN

Benjamin, come molti ragazzi ghanesi, è estremamente placido e tranquillo. “Vengo da una small town, non dalla città”, ci dice in un inglese basico, mentre un altro ragazzo che parla il Twi [il principale dialetto ghanese] fa da interprete. Gli chiediamo come passa le sue giornate. “Sono qui da un anno”, risponde. “No, intendiamo, come passi le tue giornate qui? Come trascorri il tempo?”. L'altro ragazzo traduce.

“Non posso mandare soldi alla mia famiglia. Quindi loro non sono molto contenti che io sia qui.”

“Passo tutto il tempo qui”, risponde Benjamin, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. “In Ghana sono andato a scuola per tre anni, poi ho fatto il car fixer, quando due macchine si scontravano chiamavano me per ripararle. È il lavoro che vorrei fare anche qui”. Nonostante la sua età (21 anni), Benjamin è sposato: in Ghana ha due figli, un maschio e una femmina. “Parlo con la mia famiglia una volta al mese, perché non ho soldi per sentirli più spesso. Discutiamo della mia situazione, mia moglie a volte si arrabbia perché vuole che trovi un lavoro, ma non posso trovarlo senza documenti, e il pocket money è piccolo, non posso mandare loro dei soldi. Quindi non sono molto contenti che io sia qui”.

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DANIEL

“Ho fatto la technical school, che ho completato nel 2009. In Ghana lavoravo come muratore: lì stanno costruendo molti edifici in questo momento”, ci racconta Daniel, che ha 26 anni e sta frequentando un corso di formazione organizzato dalla Scuola Edile di Bergamo con la Cooperativa Ruah, dedicato ai richiedenti asilo. “Lavoravo a Sunyani [che nel 2007 è stata votata come città più pulita del Ghana], la mia città, e anche in altri posti vicini. Il lavoro come muratore però nel mio paese è un po' diverso”.

"Lavoravo a Sunyani, la mia città, e anche in altri posti vicini. Lì il lavoro come muratore però è un po' diverso."

Chiediamo a Daniel di farci qualche esempio: “Il plastering [stuccaggio]”, ci dice, “viene fatto in un altro modo, lo stucco viene messo prima e non utilizzato come rivestimento. E poi non c'è attenzione per la sicurezza. Mi è piaciuto molto vedere come si costruisce qui in Italia. La parte di lavoro che preferisco è proprio lo stuccaggio, perché mi viene naturale, sono molto veloce. Mi piacerebbe imparare anche a fare gli impianti elettrici, penso proprio che seguirò il corso di elettricista”. La prossima settimana Daniel seguirà l'ultima lezione del corso di edilizia: “Mi spiace. Vorrei proprio proseguire per imparare più cose”.

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MARIO, vice direttore della Scuola Edile di Bergamo

“Tutto è iniziato una sera, quando io e Roberto Zanotti, responsabile dei corsi di formazione della Cooperativa Ruah, ci siamo incontrati a cena a casa sua. Mi ha raccontato dell'idea di organizzare un corso di edilizia per i richiedenti asilo, nata inizialmente da un contatto tra la Prefettura e ANCE. Per me è stato come fare un salto indietro di 27 anni: mi occupo di corsi di formazione ma in passato ho dedicato un anno alla “fase 2” dell'integrazione della comunità albanese collaborando con la Caritas della parrocchia di S. Tomaso [un quartiere di Bergamo]”. Il corso è nato sul modello di un altro realizzato in precedenza dalla Scuola Edile di Bergamo per il progetto “16oreprima”, dedicato ai lavoratori stranieri nell'edilizia: “Avevamo già fatto un progetto di alfabetizzazione per insegnare loro il «linguaggio di cantiere» e fare formazione sulla sicurezza: il cantiere è una brutta bestia perché ognuno è diverso dall'altro, non si riescono a standardizzare le norme, dunque è necessario diffondere una cultura della sicurezza. Questo corso è stato trasformato nel «modulo A» di quello per i richiedenti. Il «modulo B» invece serve a insegnare quelli che sono i pilastri dell'edilizia, ovvero verticalità, orizzontalità, planarità. Sono concetti semplici: per esempio l'orizzontalità è quella che ti permette di iniziare a costruire un muro parallelo al terreno e di mantenerlo così fino alla fine. Altrimenti viene tutto storto ed è un problema”.

“Speriamo che quello che imparano qui, qualunque cosa succeda loro, gli serva, magari, a salvargli una mano, o la pelle.”

In totale i corsi sono quattro, e coinvolgono 76 richiedenti asilo. “È un'iniziativa che ha lo scopo di dare loro un'idea generale del lavoro edile”, ci spiega Mario, “ma, soprattutto, di valorizzarli come persone, facendoli sentire utili: anche se qui i cantieri sono simulati per loro è come lavorare davvero. Purtroppo non è possibile, e non avrebbe neanche molto senso, formare in modo approfondito persone che non si sa se otterranno un permesso di soggiorno. Però speriamo che quello che imparano qui, qualunque cosa succeda loro, gli serva, magari, a salvargli una mano, o la pelle”.

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KRIK, tuttofare

“Ho quasi mezzo secolo”, ci dice sorridendo Krik, tuttofare del centro d'accoglienza del Gleno quando gli chiediamo la sua età. Lavora qui da sei mesi, “Prima giravo per più strutture. Questo edificio è grande e vecchio, quindi c'è sempre qualcosa da fare. Gli operatori preparano la lista delle cose da aggiustare per ogni piano: tapparelle, lavandini che perdono, eccetera. Se ci sono da fare lavori più complicati ci affidiamo a idraulici o saldatori esterni”.

“Oltre al lavoro come tuttofare sono tra i fondatori di un'associazione che si chiama Toubkal, come il monte più alto del Nord Africa.”

Chiediamo a Krik, che è di origine marocchina, come si trova con gli ospiti del centro: “Benissimo”, dice, “Sono abituato a lavorare con ragazzi stranieri. Nel 2005 sono stato uno dei dieci fondatori di un'associazione che si chiama Toubkal, come il monte più alto del Marocco, e di tutto il Nord Africa: insegniamo arabo ad adulti e bambini, aiutiamo a fare i compiti e organizziamo corsi di cittadinanza”. La vita di Krik, tra attività dell'associazione, lavoro come tuttofare e padre di tre bambini, è parecchio piena: “Quest'anno ho deciso di ridurre un po' i ritmi. Prima lavoravo sempre, adesso invece la domenica sto a casa, a godermi un po' la mia famiglia”.

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CORRADO, imprenditore

Incontriamo Corrado fuori dal centro d'accoglienza del Gleno: è appena arrivato con il suo furgone, o meglio con quello della sua ditta, La Ristor (“Citatela pure, è tutta pubblicità!”, ci dice scherzando), che si occupa di ristorazione e catering. Nel furgone ci sono una decina di casse termiche che contengono il pranzo dei circa 300 ospiti del centro d'accoglienza. “Abbiamo preparato tutto io e una signora albanese che mi aiuta a cucinare, la signora Clini. Ci alziamo alle sei di mattina: mettiamo su l'acqua, poi mentre bolle iniziamo a preparare il secondo. Verso le undici buttiamo il riso -parboiled, una varietà che tiene la cottura, nel frattempo io mi organizzo con il contorno, e via andare! Quando poi carichiamo tutto sui furgoni aggiungiamo anche i sacchi di pane”.

Corrado e la signora Clini preparano pranzo e cena per i circa 300 ospiti del centro d'accoglienza: “Ci alziamo alle sei di mattina: mettiamo su l'acqua, poi mentre bolle iniziamo a preparare il secondo.”

Corrado fa questo lavoro da una vita: “Ho iniziato quarant'anni fa pelando patate. Sono stato tanti anni a cucinare anche all'estero: in Germania, Inghilterra, Francia. Oggi i giovani vengono fuori dalle scuole alberghiere che non sanno fare niente, bisogna lavorare in posti buoni, fare tanta esperienza”. Mentre chiacchieriamo, alcuni ospiti del centro d'accoglienza vengono a caricare le casse per portarle ai piani. Chiediamo a Corrado come si trova con loro. “Benissimo”, dice, “Io vado d'accordo con tutti, mai avuto problemi”.

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SAMUEL

Incontriamo Samuel nel giardino del centro d'accoglienza di San Paolo d'Argon (Bergamo): sta aggiustando una vecchia bicicletta da donna. “Ho le mani sporche, scusate”, ci dice, “ho imparato ad aggiustare da solo la bicicletta perché non ho soldi per pagare un ciclista”. La bici è fondamentale per Samuel, come per molti altri richiedenti che vivono lontano dalla città: “La uso per andare a Bergamo due volte la settimana, lì c'è una piccola sede della nostra chiesa, la Deeper Life Bible Church, la sede principale si trova a Brescia, ci andiamo tutti insieme in treno una volta al mese”. Samuel ha 52 anni e viene da Benin City, capitale dello stato Edo, a sud della Nigeria. Lì ha una moglie e quattro figli. La più giovane è una bambina di sette anni.

“Vado a Bergamo due volte la settimana, lì c'è una piccola sede della nostra chiesa, la Deeper Life Bible Church.”

“In Nigeria ho frequentato the Polytechnic, ho studiato electricity”, ci spiega, “Una volta uscito dalla scuola sono stato assunto in un'azienda giapponese, mi occupavo di riparazioni elettriche e lavoravo anche al computer, in ufficio. Ora sto frequentando la scuola di italiano ad Albano [un paese vicino a San Paolo d'Argon] ma so bene che qui sarà difficile trovare un lavoro dello stesso tipo, però posso fare l'elettricista o altri power works. Quello l'ho fatto io”. Indica un cavo elettrico che scorre lungo il muro e arriva fino a una ciabatta dove è collegata una tv, appoggiata su una mensola. “Non ho documenti, quindi ora non sto lavorando, passo molto tempo qui, con gli altri ragazzi. Trascorriamo le giornate parlando, guardando la tv o giocando a calcio. Aspettiamo”.

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FATIMA, donna delle pulizie

Fatima si occupa delle pulizie del centro d'accoglienza del Gleno, a Bergamo: “Prima, quando era aperto solo il piano terra, facevo tutto da sola”, ci racconta, “Poi a giugno è stata presa un'altra signora per fare il primo piano. Le camere vengono pulite dai ragazzi, io mi occupo dei pavimenti, del magazzino, delle cucine. Sono in Italia da tanti anni e ho sempre fatto questo, prima facevo le pulizie in alcuni uffici a Brusaporto”. Le chiediamo cosa fa nel tempo libero: “Mi piace cucinare”, ci dice, “Soprattutto piatti tradizionali del Burkina Faso, il mio paese d'origine. Ma a mio figlio piace la cucina italiana, quindi per lui ho imparato a fare anche paste, risotti e altre cose non speziate”. Suo figlio ha 14 anni ed è nato in Italia: si chiama Abdoulayé, vive con Fatima e con suo marito a Bergamo.

“A mio figlio piace la cucina italiana, quindi per lui ho imparato a fare anche paste, risotti e altre cose non speziate.”

“Frequentate anche italiani?”. “Certo”, dice Fatima, “Vediamo spesso una signora, Franca, e suo marito Alessandro: fin da quando abitavamo nella casa precedente, nel quartiere di S. Tomaso, ci hanno aiutato a compilare i documenti, e tenevano anche Abdoulayé quando era un bambino. Passiamo tutte le feste insieme. Adesso, grazie a Dio, abbiamo trovato una casa popolare: tirare avanti non era facile prima. Almeno ora l'affitto è più basso”.

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TIZIANO, coordinatore

“Ho iniziato a lavorare per la Cooperativa Ruah nel 2001: sono stato uno dei primi tirocinanti universitari. All'epoca studiavo pedagogia, e ricordo che i richiedenti asilo nella bergamasca erano 5 o 6: nigeriani, sudanesi, qualche somalo. Poi è arrivata l'ondata degli eritrei, che venivano al nord con i documenti delle commissioni territoriali del sud Italia, e nel 2007-2008 degli ivoriani, dopo la guerra civile tra i sostenitori di Gbagbo e Ouattara. Infine nel 2011 è esplosa la bomba Libia, con la caduta di Gheddafi, che con i suoi militari tamponava il flusso di richiedenti”. La situazione della Libia, ora, è molto più caotica, ci spiega Tiziano: “I migranti vengono fatti lavorare senza essere pagati. Dopo un po' di mesi iniziano a protestare allora le soluzioni sono due: farli fuori o costringerli ad andarsene. In molti raccontano di essere stati costretti a partire. È anche un modo per liberarsi dell'«immigrazione nera» e avere un costante ricambio di «schiavi». Si tratta soprattutto di maliani, perché i nigeriani arrivano in Libia con i soldi e usano il paese come luogo di transito, in modo molto più consapevole”.

"I migranti che arrivano ora sono molto più giovani rispetto all'inizio degli anni duemila."

I migranti che arrivano, ci racconta Tiziano, sono molto più giovani rispetto all'inizio degli anni duemila. “Ora sono quasi tutti ventenni, una volta l'età media era di circa 30 anni: anche perché magari erano persone che avevano già fatto qualche anno di clandestinità al sud, aspettando una sanatoria per venire al nord. La crisi economica ha fermato le sanatorie, dunque ora la richiesta d'asilo è l'unica modalità per entrare in Italia". Chiediamo a Tiziano come affronta il suo lavoro di coordinatore. "Ho cambiato più centri, all'inizio ero a Botta di Sedrina [in provincia di Bergamo], mi piaceva perché c'era un'equipe nuova e molto caos, che in un certo senso preferisco alla tranquillità", scherza. "Una delle difficoltà più grandi è il turnover, perché non si può lavorare allo stesso modo con persone che sono qui da due anni o da due giorni. E poi la stanchezza, la spossatezza per l'attesa lunghissima dell'esito della commissione. Io dico sempre: «Prendete in mano la vostra vita e andate», perché il sistema assistenzialistico che c'è ora ti dà sì tanto, ma ti toglie anche tanto". "E qualcuno se ne va?". "Sì, qualcuno lo fa. Vanno giù al sud a raccogliere pomodori, guadagnano 20 euro al giorno invece dei 10 al mese del Mali. Anche se il pensiero delle famiglie, dei figli, dei genitori, li martella continuamente, sia per la distanza che perché se succede qualcosa non possono tornare a casa. Il paradosso è che nemmeno quelli che hanno avuto il foglio di via possono andarsene, perché per prendere un aereo e spostarsi bisogna avere dei documenti che loro non hanno. In pratica, si ritrovano totalmente persi in una specie di buco nero burocratico".

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UNA SPECIE DI GRANDE CASA

Alcuni panni "stesi" sul prato del centro d'accoglienza del Gleno

Quando arriviamo al centro d'accoglienza di via Gleno, a Bergamo, la giornata è già iniziata da un pezzo: alle 8 i primi ospiti, responsabili della colazione, si sono alzati per preparare latte, caffè, biscotti e acqua calda per il tè per tutti i 298 richiedenti che occupano i tre piani dell'edificio ("Specificate che oggi, il 12 ottobre 2016, sono 298, perché domani il numero potrebbe essere già cambiato", ci dice Ammar, vice-coordinatore del centro). "Qui si trovano circa il 30% delle persone accolte dall’Associazione Diakonia Onlus per Caritas Diocesana Bergamasca tramite la Cooperativa Ruah", spiega Ammar, "Solo gli operatori, tra diurni e notturni, sono quasi trenta". Capiamo subito che quello del Gleno (tutti lo chiamano così: "il Gleno", fin da quando l'edificio ospitava una casa di riposo che, nel 2014, si è trasferita in un edificio più moderno che si trova a poche decine di metri dal centro d'accoglienza) è un piccolo mondo.

"Quando siamo entrati al Gleno per la prima volta per ospitare i richiedenti si usavano le palestre delle scuole: c'era bisogno di spazio, e qui ne abbiamo trovato in abbondanza."

Ammar ci racconta di quando, nell'agosto del 2015 ("Forse era addirittura il giorno di Ferragosto") lui e altri tre operatori entrarono per la prima volta nell'edificio, all'epoca vuoto. "È stato bello", dice, "Era il periodo in cui per ospitare i richiedenti si usavano le palestre delle scuole: c'era bisogno di spazio, e qui ne abbiamo trovato in abbondanza. Ogni stanza ha il suo bagno e può ospitare dalle tre alle cinque persone. È una specie di grande casa".

Ammar, vice-coordinatore del centro d'accoglienza del Gleno

I primi richiedenti sono arrivati, oltre che da alcune palestre delle scuole bergamasche, da altre strutture come quelle di Lizzola e di Ponteranica. Erano circa cento persone: per ospitarle fu sufficiente aprire e rendere agibile il primo piano dell'edificio. Nella primavera di quest'anno i piani occupati sono diventati due. E con gli arrivi dell'estate anche il terzo, che un tempo ospitava le "residenze C", è diventato la "grande casa" di quasi altre cento persone. Al Gleno la giornata è scandita da attività continue: oltre ai turni per la colazione, il pranzo e la cena, ogni richiedente può firmare un "Patto di volontariato", una sorta di piccolo contratto con cui si impegna a partecipare continuativamente alla manutenzione e alla pulizia dell'edificio e del giardino. Facciamo un giro tra gli alberi insieme a Vincenzo, un operatore del centro. "Prima qui era una giungla, adesso invece è uno spazio utilizzabile", ci spiega, mentre ci presenta Mussa e Basada, due ospiti gambiani che in pettorina fluorescente stanno raccogliendo foglie secche, che buttano in dei sacchi gialli. "Ora oltre alle attività di volontariato interne stiamo organizzando anche quelle esterne, in collaborazione per ora con la Parrocchia di San Francesco, che è qui vicina ed è sempre stata estremamente aperta e disponibile nei nostri confronti. Da quest'anno anche le lezioni di italiano si svolgono lì, mentre prima i richiedenti erano costretti ad arrivare fino al Patronato San Vincenzo".

Una lezione di italiano nella Parrocchia San Francesco

Prima che arrivi l'ora di pranzo, facciamo in tempo a visitare la scuola: le lezioni sono organizzate in base al livello degli studenti. Questa è una lezione per il livello A1 ("Il più alto", ci spiega Vincenzo, "Gli A2 possono iniziare a frequentare le scuole medie serali"). "La carta d'identità" è il titolo scritto sulla lavagna: ad ogni ospite viene chiesto di autodescriversi. Sentiamo le presentazioni di Mamadou, gambiano, nato nel '98, che ha tre sorelle, capelli neri e occhi neri; Jonathan, nigeriano, nato nel '95, celibe, capelli neri e occhi neri; Ayodele, nigeriano, nato nel 1990, capelli neri e occhi neri. L'ultima carta d'identità è quella dell'insegnante, Susanna, nata nel 1987, alta 167 cm, capelli biondo scuro e occhi verdi. La sensazione, dopo una mattinata piena di movimento e incontri multicolori, è quella di avere di fronte un campionario di persone che -tra le mille energie negative, ma anche positive, che si muovono nel mondo in questa strana epoca- costruiranno un futuro che avrà i capelli neri, la pelle nocciola e gli occhi verdi.

Il pasto viene consumato velocemente, senza tante chiacchiere: è un momento quasi più "nutrizionale" che conviviale.

Quando torniamo al Gleno, il furgone bianco del signor Corrado, responsabile del catering, è già arrivato: alcuni richiedenti vengono a prendere le casse termiche per portarle ai piani. L'operazione è rapida: ogni cassa contiene delle teglie con riso e condimento. Il pane sta in dei grossi sacchi. Nel giro di nemmeno un'ora Corrado riparte con le casse vuote della sera precedente e gli ospiti "di turno" distribuiscono il cibo. Il pasto viene consumato velocemente, senza tante chiacchiere: è un momento quasi più "nutrizionale" che conviviale. Alle due è tutto finito: chi deve andare a scuola sia avvia verso la parrocchia, altri ospiti si rilassano nelle stanze o su divanetti e poltrone. Altri ancora, al secondo piano, prendono un numerino per farsi visitare in infermeria.

Monica visita Lamine, che ha problemi di nausea e freddo

Monica, l'infermiera, è una signora vitale e sorridente. "Visito in media 18-25 persone al giorno", ci dice, "Qui al Gleno è tutto molto ben organizzato. Abbiamo creato due gruppi Whatsapp, uno per infermieri e operatori e uno per infermieri e medici: di fatto il nostro compito è quello di fare da «scudo» in modo che i medici di base siano coinvolti solo se ci sono problemi seri". Le medicine arrivano dalla Farmacia S. Anna di Bergamo: "Forniscono i farmaci per tutte le strutture, facendo un prezzo molto molto basso. Ne utilizziamo in quantità, il che può sembrare strano, ma in strutture grandi come questa è fondamentale fare prevenzione, ridurre subito la sintomatologia, per evitare che le malattie si diffondano. Il 15% delle patologie sono somatizzazioni da stress: molti disturbi li gestiamo distribuendo dei placebo". Assistiamo ad alcune visite: i problemi sono legati soprattutto a nausea, freddo, dolori muscolari ("Durante il viaggio dalla Libia molti richiedenti rimangono schiacciati e i loro muscoli anche"), carie. L'infermeria resterà aperta per tre ore, fino alle 17.30.

"Il 15% delle patologie sono somatizzazioni da stress: molti disturbi li gestiamo distribuendo dei placebo."

Si è fatta quasi sera. Gli ospiti del centro, che ormai, come ci ha raccontato Ammar, costituiscono una piccola comunità per molti versi autogestita ("Se arriva un gambiano, per esempio, va dai gambiani che gli spiegano come funzionano le cose"), iniziano a tornare dalle ultime lezioni di italiano. Salif, diciottenne del Gambia, invece, sta per uscire: frequenta la scuola media (serale), e stasera, prima di andare a dormire, scriverà delle poesie (ma questa è un'altra storia, che vi racconteremo nelle prossime settimane).

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SILVIA, coordinatrice di progetto

Silvia è una delle coordinatrici del progetto di accoglienza della Cooperativa Ruah di Bergamo. La incontriamo in un bar in città: ha avuto da poco un bambino ed è in maternità. "Ho cominciato a lavorare in Ruah nel settembre 2011, con l'emergenza nordafrica", ci racconta, "in una struttura che accoglieva solo donne nigeriane. Finito quel progetto -che purtroppo non s'è concluso bene come speravo- ho continuato a seguire alcune ragazze, ad esempio facendo babysitteraggio per le donne straniere che fanno corsi di italiano. Dal 2014 ad oggi le donne arrivate sono pochissime, e dunque mi sono completamente spostata sul settore maschile. Devo dire che è stato un po' un sollievo". "Perché?". "Perché le donne sono molto più difficili da gestire. Hanno più esigenze, sono molto più fragili degli uomini, inoltre a volte arrivano incinte o con dei bambini che sono anche loro da gestire. E poi c'è il problema, che riguarda soprattutto le donne nigeriane, della prostituzione. Insomma, accoglierle è davvero complesso, sotto tanti punti di vista, e servono anche strutture pensate in un altro modo".

"Le donne sono molto più difficili da gestire. Hanno più esigenze, sono molto più fragili degli uomini."

Chiediamo a Silvia come vive il suo lavoro e i rapporti con le persone accolte: "È chiaro che non è come lavorare in banca: i rapporti che si creano sono personali, dunque possono essere molto belli ma anche molto sofferti. Ora sono a casa ma mio marito lavora anche lui in cooperativa, quindi parliamo spesso di lavoro: in realtà ne sono contenta, perché è bello avere aggiornamenti sulle cose che succedono". Secondo Silvia, se nel 2011 c'era la sensazione che il flusso di migranti avrebbe avuto un termine, ora quest'idea è cambiata radicalmente. "I numeri aumenteranno, e spero che aumenti sempre di più anche il coinvolgimento di altre cooperative e dei comuni per l'accoglienza in strutture piccole o appartamenti. L'ultimo bando della prefettura, per l'accoglienza di 200 richiedenti, è andato deserto. Noi (Caritas e Cooperativa Ruah) siamo arrivati a circa 1500 persone accolte, e non potremo andare molto oltre, anche perché l'accoglienza non è solo «mettere i richiedenti nelle strutture», dietro c'è tutto un lavoro che se fatto su 300 persone è una cosa, su 1500 è un'altra. Per questo stiamo aiutando altre cooperative a inserirsi nel mondo dell'accoglienza. Il processo è lento, però non vedo altra via".

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OMAR, operatore e mediatore

“Sono in Italia dal 2004. Abito da sempre a Vertova, sono bergamasco”, scherza Omar, che lavora come operatore nel centro d'accoglienza di San Paolo d'Argon e come mediatore a Lizzola. “Mi sono laureato in Lingue e letterature straniere: ho fatto per molti anni il receptionist in diversi alberghi, sia in Senegal che in Italia”, ci racconta, “Poi nel 2010, dopo un corso di mediatore culturale, ho iniziato a lavorare in Veneto, e infine sono passato alla Cooperativa Ruah di Bergamo. Con loro mi trovo molto bene e in più sono vicino a casa”. Ad Omar piace il suo lavoro: “Ho sempre amato lavorare a contatto con tante persone diverse. Anche se ci sono anche momenti in cui mi chiedo chi me l'ha fatto fare”, ride. “Quando capitano momenti di tensione e uno va fuori di sé lo lascio svuotare, ascolto, e poi insieme ricominciamo a ragionare. Chiaramente bisogna anche conoscere le differenze culturali. Faccio un esempio banale: in quasi tutta l'Africa è considerato poco rispettoso guardare una persona negli occhi mentre si parla, mentre qui spesso è il contrario. Anche se poi chiaramente i richiedenti lo capiscono e si adattano, come chiunque si trovi in un paese con usanze diverse”.

“Ho sempre amato lavorare a contatto con tante persone diverse. Anche se chiaramente ci sono anche momenti in cui mi chiedo chi me l'ha fatto fare.”

Chiediamo a Omar se rivede un po' di sé negli ospiti dei centri d'accoglienza. “In realtà no: io sono stato chiamato a lavorare a Genova da un'agenzia di viaggi, avevo un visto e un progetto quando sono arrivato in Italia. Molte delle persone che arrivano qui non hanno piani -oppure preferiscono non raccontarmeli. Il mio personale punto di vista su questo grande flusso di persone, di migranti, è che non si tratta di un fenomeno casuale, ma diretto da qualcuno: un motivo potrebbe essere che la popolazione europea sta invecchiando e c'è bisogno di gente che paghi le pensioni tra vent'anni. Ne parlo spesso con i miei amici italiani, che sono soprattutto anziani della mia zona. Loro non hanno paura, hanno conosciuto la migrazione. Le persone più spaventate sono quelle sotto i quarant'anni, che non trovano lavoro e temono per la loro sicurezza”.

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YUSUPHA, operatore notturno

"Lavoro qui da metà giugno. Prima lavoravo come metalmeccanico a Verdellino, prima ancora studiavo a Milano", ci spiega Yusupha, operatore notturno del centro d'accoglienza di San Paolo d'Argon. Yusupha ha 31 anni e viene dal Gambia: è stato incarcerato per alcuni mesi a Malta, perché non voleva fare richiesta d'asilo lì ma arrivare in Italia. La sua famiglia (mamma e fratelli) si trova in Gambia. Ha studiato informatica all'università, e ha lavorato sia in Gambia che a Malta in questo settore, "Facevo inserimento dati".

Yusupha ha un figlio, nato in Italia: "Ha un mese, si chiama Omar".

Gli chiediamo come è il lavoro dell'operatore notturno: "Lavoro dalle 6 del pomeriggio fino alle 10 del mattino: se ci sono problemi o emergenze chiamo l'ambulanza o la Polizia. Ma di solito è tutto tranquillo: chiacchiero con i ragazzi, e dopo le 10 rimango in ufficio a leggere o scrivere qualcosa: sto frequentando la Cisco Networking Academy a Milano per tenermi aggiornato, il mio obiettivo è lavorare come informatico anche qui, facendo riparazioni e aggiustando reti". Yusupha ha un figlio, nato in Italia: "Ha un mese, si chiama Omar. La mia fidanzata è di Bergamo e stiamo insieme da un anno e mezzo: lavorando quattro giorni a settimana ne abbiamo tre per stare insieme, e poi lei ora è in maternità quindi di giorno possiamo goderci il nostro bambino".

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FRANCESCO, coordinatore di progetto

"La vita da coordinatore fondamentalmente consiste nello smazzarsi casini e nel cercare di avere lo sguardo un mese avanti: può capitare di dover aprire una struttura in due giorni, e bisogna farlo stando attenti alle esigenze umane delle persone da accogliere, ma anche a quelle dei colleghi, il cui lato creativo va valorizzato", ci racconta Francesco Bezzi, coordinatore dei centri d'accoglienza gestiti da Caritas Bergamasca e dalla Cooperativa Ruah. "Il mio lavoro mi piace, soprattutto perché ti dà modo di vedere che in giro c'è tanta bella gente, c'è tanta umanità. Anche se a volte ammetto che un po' mi innervosisco pensando al fatalismo dei richiedenti: capisco il peso del giudizio della Commissione Territoriale, capisco anche che alcuni preferiscano «sedersi» sui loro diritti -forse anche io farei lo stesso-, però è assurdo che persone che hanno compiuto viaggi quasi eroici per arrivare qui poi spesso nella quotidianità siano così poco intraprendenti. Io gli dico sempre: «Voi siete ricchi solo di una cosa. Di tempo». Essere in pausa ha dei lati negativi, ma puoi sfruttare bene il tempo a disposizione, e il volontariato è il modo migliore per costruire relazioni con le persone che poi un domani possono tornare utili. Purtroppo spesso è proprio il giudizio negativo della Commissione ad affossare l'impegno di alcuni richiedenti: se vedi che non puoi avere un futuro, ti passa la voglia di costruirlo".

"Spesso dico ai richiedenti: «Voi siete ricchi solo di una cosa. Di tempo»."

Secondo Francesco, il mondo dell'accoglienza deve cambiare, andando sempre di più verso l'accoglienza diffusa: "La strada da seguire è quella. Certo, bisogna costruirla ogni volta, scontrandosi con i pregiudizi di tanti. Però c'è da dire che sono tanti anche quelli che si danno da fare. Forse l'ostacolo più grande da superare è la burocrazia, che rallenta moltissimo dei processi che dovrebbero essere rapidi". Oltre ai mille impegni richiesti dalla gestione di decine di centri d'accoglienza, Francesco lavora su progetti educativi, rivolti soprattutto ai giovani: "Quando parlo con loro (ma anche con gli adulti) dico che secondo me non ha senso avere metà del mondo che si può muovere e metà che no. Forse è un sogno fantapolitico, ma penso che bisogni dare a tutti la possibilità di mettersi in gioco: perché un italiano può andare in Inghilterra a cercare lavoro e un maliano non può venire in Italia, o andare in Francia, o in Canada? Purtroppo l'immigrazione spesso diventa una bandiera politica, da entrambe le parti, e alla fine chi ci va di mezzo sono sempre i poveri. L'abbiamo visto con la Brexit, e temo che lo rivedremo ancora".

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